Tra le etnie islamiche di discendenza uterina e orientamento ginecocratico, quella berbera-tuareg è forse la più nota in occidente, sia in virtù della vicinanza geografica, sia per la maggiore affinità antropologica e culturale al panorama mediterraneo.
Il termine berbero, con il quale vengono designate fin dall’epoca greco-romana le popolazioni originarie dell’attuale Maghreb, la fascia ovest del Nordafrica, ossia Marocco, Algeria e Tunisia, non assume una valenza di natura bioantropologica. L’etimologia della parola va ricercata nel termine “barbaroi”, usato per designare i non parlanti la lingua di koinè o il latino, e qualificati perciò come balbuzienti.
Per l’influenza esercitata dagli europei, in particolare i francesi, su quest’area, il termine berbero è stato inglobato anche nel lessico arabo, per distinguere queste minoranze etniche aborigene dai discendenti delle corporazioni mercantili e dei soldati giunti dalla penisola arabica.
I gruppi più consistenti sono rappresentati dai Cabili o Masiri, ” gli uomini liberi” e dai Tuaregh, gli “uomini Blu”.
I
Cabili sono stanziati nella regione della Grande Cabilia, il cui principale centro è
Tizi Ouzou, sito poco a est di Algeri.
Negli ultimi tempi, sono passati alle cronache in seguito alla nuova insurrezione del movimento autonomista, conosciuta come “primavera berbera”.
I Cabili, come altre minoranze, rivendicano più ampie garanzie e diritti dal governo centrale di Algeri. Pur praticando l’Islam, hanno aderito quasi in toto alla linea Kharigita e hanno mantenuto integro il patrimonio rituale animista, agreste, pagano e alchemico dell’era preislamica.
Anche il termine Tuareg, importato nel lessico occidentale, è estraneo a questi carovanieri del sale che da tempo immemorabile percorrono il Sahel e il Sahara, anzi è poco gradito, visto che in lingua araba Tuareg assume una valenza offensiva, dispregiativa; in virtù della riluttanza a rimuovere i culti originali, un misto di paganesimo astrale e cristianesimo primitivo, i cavalieri del deserto sono stati marchiati come “infedeli”, “coloro che abbandonano Allah”.
Nella loro lingua, i Tuareg si definiscono Kel Tamasheq, ossia ” coloro che parlano il tamasheq” oppure Amazigh o Tamazigh o Imajhiren, ” uomini liberi “. La loro identità culturale ed etnica è strettamente connessa alla lingua. Questo aspetto caratterizza anche i Baschi europei, che in lingua euskara si definiscono Euskaldukan, ossia ” coloro che parlano l’euskara”.
Secondo alcuni antropologi, gli abitanti del golfo di Biscaglia, le popolazioni berbere e gli ormai estiniti Guanci, aborigeni delle Canarie, appartengono al medesimo ceppo etnico, discendente dall’uomo di Cro-Magnon; sono da considerare, pertanto, i primi nuclei stabili del Mediterraneo occidentale, appartenenti alla “razza rossa”, nella quale rientrano anche gran parte delle civiltà precolombiane.
Nella mitologia antica, troviamo molti riferimenti alle popolazioni berbere; i Greci li conoscono come Garamanti o Ataranti e li considerano gli ultimi discendenti dell’Atlantide del ” Timeo” e del “Crizia” di Platone, tesi che verrà ripresa in ambienti francesi agli inizi del ‘900.
Nella mitologia ellenica, troviamo la Lamia, l’affascinante regina di Libia, che, per aver sedotto Zeus, viene punita dalla gelosa Era con l’uccisione dei figli. Da allora, per vendetta, diviene un essere mostruoso che vaga la notte per rapire i bambini.
La Lamia è un personaggio ricorrente anche nel paganesimo basco e il rapporto con essa è contraddittorio; viene vista come un demone, un vampiro malvagio, ma allo stesso tempo è sinonimo della potenza, dell’energia femminile e della donna emancipata che rifiuta di sottomettersi alle istituzioni patriarcali, analoga alla Lilith della Tradizione ebraica. E gli Elleni non mancano di sottolineare il particolare ruolo riconosciuto alle donne, considerate delle vere e proprie matriarche.
Nel I secolo AC, Diodoro Siculo sostiene nella sua ” Biblioteca storica” che ” un tempo, nelle parti occidentali della Libia, ai confini del mondo abitato, viveva una razza governata dalle donne. La regina di queste donne guerriere chiamate Amazzoni, Myrina, radunò un esercito di trentamila fanti e temila cavalieri, penetrò nella terra degli Atlantoi e conquistò la città di Kerne”.
I Tuareg si considerano discendenti della regina
Tin Hinan, latinizzata in Antinea, considerata madre fondatrice della loro civiltà.
Anche in questo caso, come per i Minangkabau e i Cham, anch’esse etnie di religione islamica, ci troviamo di fronte ad un popolo generato da una matrice femminile, piuttosto che da un eroe fondatore.
I Tuareg, attualmente, sono circa un milione: 500000 vivono in Niger, 300000 in Mali, 50000 in Libia, 30000 in Burkina Faso, 20000 nel Ciad. Sono considerati dagli osservatori ONU, tra i 10 popoli che rischiano l’estinzione.
A differenza dei Minangkabau, che occupano una posizione privilegiata nel panorama indonesiano, i Tuareg vedono sempre più declinare i fasti dei regni passati e perdere progressivamente le radici identitarie, a causa della politica di sedentarizzazione forzata imposta da governi i cui confini amministrativi non coincidono con la loro confederazione tribale, dell’integralismo di alcuni settori dell’Islam, della rimozione del Tamasheq, sostituito dall’arabo.
L’immagine fornita all’esterno è spesso distorta; i Tuareg sono qualificati come predoni del deserto, pericolosi banditi che vivono assaltando le carovane di commercianti che attraversano il Sahara, caratterizzati da una rigida struttura organicista, di casta, che ancora ammette la schiavitù. La realtà si discosta notevolmente dallo stereotipo.
Insediati nei massicci montani del Sahara Centrale, i Tuareg subiscono, nel primo secolo dell’Egira, le invasioni arabe. Vengono dispersi nei massicci montuosi dell’Hoggar e dell’Air, dai quali prolungano la resistenza per circa 500 anni. Sono guerrieri agili, alti e forti, armati di lancia di ferro, pugnale e una spada molto rinomata, la takouba, una delle massime espressioni dell’artigianato Tuareg, combattono in groppa ai propri cammelli.
Sono da sempre i custodi del deserto del Sahara, un tempo foresta florida e rigogliosa, del quale conoscono ogni riparo, ogni oasi.
Gli Arabi carpiscono queste abilità e, dopo la prima fase di islamizzazione, reclutano i cavalieri Tuareg tra le proprie file per attraversare lo stretto di Gibilterra e dare inizio alla fase di espansione nella penisola iberica. Giunti a ridosso dei Pirenei, gran parte dei Tuareg Imazighen legano con i Baschi dando vita al florido Regno di Navarra, al quale, dopo la caduta del franchismo, la nuova costituzione spagnola ha riconosciuto un’autonomia particolare.
Per tutto il Medioevo, i Targui non subiscono alcuna influenza da parte del mondo occidentale, espandendosi fino al Sahel, regione caratterizzata dall’alternarsi di colline, a sud, alla regione di Timbouctù, che diviene principale centro di convergenza dei Tuareg, in direzione ovest, a Kenem, a est.
La grande rete di carovaniere, allestita dagli Arabi, diviene, per i Tuareg, un’alternativa di sopravvivenza; il controllo del traffico commerciale ( protezione e dazi ) diviene una delle primarie fonti di reddito. Successivamente, allestiscono in proprio il commercio del sale con i Regni neri del sud, garantendosi il diretto controllo delle saline del Niger. Lo scambio comprende anche i prigionieri di guerra, venduti come schiavi.
Mentre l’Europa è offuscata dall’oscurantismo medievale, città come Timbouctù,
Agadez,
Ghat,
Gadamesh,
Tindouf conoscono lustri di splendore. A partire dal XIX secolo, la politica di colonizzazione francese pone fine all’egemonia dei Tuareg nel Sahara Centrale, interrompendo bruscamente il commercio carovaniero, praticato adesso dalle scorte armate dei coloniali, che percorrono le grandi rotte commerciali sahariane.
Gli Imazighen perdono il loro predominio sociale ed economico e si ritrovano via via ad essere emarginati, mentre i popoli che fino ad allora sono stati loro sottoposti crescono in potere, sia economico che sociale. Ne deriva uno stato di degrado generale e una povertà sempre più marcata.
Da guerrieri a mendicanti, i Tuareg vedono decimare le loro mandrie da ondate di immani siccità. La politica coloniale non si interessa della salvaguardia di un’etnia considerata un potenziale focolaio insurrezionale, specialmente in Niger, dove i Tuareg vanno via via dissolvendosi, in un oblio di povertà e miseria.
Un vero e proprio esodo caratterizza questi anni, con spostamenti di intere tribù verso l’Algeria e verso il sud-ovest libico, gli ancestrali nobili Imazighen ridotti ad esuli per disperazione. E’ in questo contesto tragico che, nel 1917, si assiste all’ingresso sulla scena di Kaocen.
Esule in Libia insieme a centinaia di confederati nigerini, riesce a riunire le varie tribù della confederazione, solitamente in faida tra loro e, caso unico nella storia Tuareg, a far confluire in un’unica, grande coalizione gran parte degli accampamenti Tamazigh del Niger.
Dopo le prime scaramucce nella regione dell’Air, la coalizione Tuareg si spinge verso sud, attraverso il Tenerè, e cinge d’assedio Agadez per lungo tempo, riducendo alle stremo la guarnigione francese. Sono accolti come liberatori non solo dalla popolazione nomade, ma dallo stesso sultano Amenokhal dell’Air, insediato dai Francesi. L’arrivo dei rinforzi da ovest salva le truppe coloniali e disperde le tribù, spingendole ancora verso nord.
Per una arbitraria interpretazione della legge del taglione o come miglior risposta per scoraggiare future insurrezioni, Agadez viene decimata, svuotata di tutti i suoi abitanti, esiliati al di fuori delle mura per lungo tempo, mentre i Francesi si danno al saccheggio della storica città. Kaocen ed il sultano, ormai alleati, riparano tra i picchi dell’Air. Kaocen, catturato dai Francesi, viene impiccato senza essere sottoposto ad alcun processo.
Le confederazioni tornano a separarsi e il sogno di libertà del popolo Tuareg si arena alla deriva.
Alla fine del periodo coloniale, vengono creati gli Stati attuali, per molti aspetti ancora sotto l’egida della Francia. Le psudodemocrazie costituite vengono affidate alle etnie melanoderme, nemici atavici dei nomadi di pelle chiara del Sahara.
L’isolamento aumenta e la siccità contribuisce al resto, decimando i Tuareg nigerini tra il 1983 e il 1986. La povertà dilagante impone, per motivi di pura sopravvivenza, di ricorrere nuovamente alla via bellica, che degenera in nuove repressioni ed esodi di massa verso i Paesi del nord.
Poi, il governo nigerino, all’inizio degli anni ’90, dà il via libera ad una serie di ipotetiche riforme e stabilisce il rientro per tutti gli esuli Tuareg, dietro promessa di una più attenta politica nei loro confronti. Fiduciosi, tornano in migliaia, da ogni regione del Maghreb, per rimanere mesi e mesi abbandonati a sè stessi in centri di raccolta creati, per pure ragioni economiche, oltre il confine. Sono condannati a morire di inedia e malattie, privi di ogni sostentamento e cura.
La protesta si leva alta e la risposta è tragica.
A Tchin Tabarraden, le forze governative spazzano via un intero campo di raccolta, sterminando donne, vecchi, bambini. Ancora una volta, i Kel Taguelmoust scendono in armi contro l’oppressione, senza però ottenere risultati. L’eco della strage di Tchi Tabarraden dilaga anche oltre confine, in Mali, dove i nomadi dell’Azaouagh insorgono. Anche qui la repressione è feroce.
E’ in questo clima di terrore e povertà che compare sulla scena Mano Dayak, l’ultimo vero catalizzatore delle confederazioni Tuareg.
Nigerino d’Air, viene istruito nelle scuole francesi per nomadi e presso il centro studi di Agadez. La sua capacità di mediazione ed il suo carisma lo rendono intraprendente e dal nulla riesce ad aprire un’agenzia turistica presso Agadez, la ” Tenerè “, che per lunghi anni è il punto di riferimento per tutti i viaggiatori occidentali diretti in Tenerè.
Attira le cronache del mondo in Niger, riuscendo a far transitare la gara Parigi-Dakar lungo la pista dell’Azalay, utilizzando i media per diffondere in occidente notizie sulla condizione del suo popolo. Divenuto scomodo per il regime centrale, decide di svendere la sua agenzia e si reca esule a Parigi dove, con grandi capacità, opera per diffondere le atrocità compiute nel suo Paese contro la sua etnia, suscitando l’interesse delle grandi potenze commerciali.
Mano, pur se contestato dai gruppi più estremisti, viene riconosciuto quasi unanimemente come leader del movimento per la libertà del popolo Tuareg e riesce, come Kaocen, a rendere compatte le varie confederazioni nigerine.
In
Mali, nel frattempo, si è giunti ad una pace armata, tuttora vigente. Mano covince le parti ad un incontro, con l’intermediazione dei governi di Francia e Algeria. Il summit che ne segue, però, non è che una farsa, così come il finto processo intestato verso i militari che hanno ordinato la repressione a Tchin Tabarraden. Mano muore in un ambiguo incidente aereo sul Tenerè, di ritorno da Parigi per un incontro con i vertici del governo, nel ’94. Ad oggi, le cause dell’incidente non sono state chiarite.
Le montagne d’Air continuano ad offire riparo a gruppi di nobili Tuareg, etichettati come predoni. La guerra è tuttora in corso, anche se con toni blandi rispetto a 10 anni fa; avviene sotto forma di attacchi isolati, episodi di brigantaggio a scopo pubblicitario, sequestri. Ma è una lotta priva di sbocchi; il potere centrale è troppo radicato, la lotta è impari, kalashnikoff contro autoblindati. Da qualche anno, i Tuareg siedono tra le file del governo, in Niger, ma con mansioni marginali.
Non si tratta mai di personalità rappresentative della maggioranza delle confederazioni. Le abilità diplomatiche e mediatrici di Mano Dayak, che, in controtendenza alla tradizione Tuareg, ha preferito percorrere le strade del dialogo e della comunicazione creativa, difficilmente potranno essere riproposte, non per adesso, almeno. La sua personalità può essere carpita attraverso opere come ” Sono nato con la sabbia negli occhi ” e ” Tuaregh: la tragedia “.
Agli albori del nuovo millennio, i Tuareg sono sempre più sedentarizzati.
In
Libia, si possono trovare nei campi d’accoglienza di Bejiui, nei pozzi petroliferi, nella conca di Awbari.
In
Algeria, poche famiglie continuano a praticare il nomadismo; parecchii uomini velati hanno lasciato il deserto per trovare occupazione negli impianti di estrazione del greggio. Un buon numero di Tuareg esercita la professione di guida od autista, altri hanno trovato impiego come assistenti agli scavi archeologici o per tracciare le piste per conto delle compagnie petrolifere.
Nessuno è entrato nelle forze armate, per motivi di ordine pubblico.
Molti Tuareg sono scesi dalle selle dei loro cammelli e guidano ora possenti tir che solcano le sabbie in Niger, Mali, Libia, attraverso le zone desertiche, per trasportare derivati del petrolio, pezzi di ricambio, persone, merci.
La maggior parte dei Tuareg, però, si trascina lungo le periferie delle città, in cerca di espedienti per sopravvivere, giorno per giorno, in un clima di arsura e siccità che appare privo di sbocchi per riportare la freschezza e il rigoglio di questa cultura millenaria, condannata all’oblio, all’estinzione, ad un disinteresse internazionale che, in questa nuova epoca che si profila come la “democrazie delle minoranze” lascia perplessi.
Foto di: Ferdi Adorno e gigawebs