Tratta e immigrazione: quel binomio da spezzare

di Anna Toro

Come possono le vittime di tratta arrivate nel nostro paese sottrarsi alle violenze dei propri aguzzini? Come possono venire a conoscenza dei propri diritti? Basta la richiesta di asilo e di protezione internazionale a scongiurare la ricaduta tra le maglie della criminalità e dello sfruttamento? E ancora, ha senso continuare a etichettare queste persone con le categorie tradizionali – come migrante economico, profugo, richiedente asilo, clandestino, vittima di tratta etc – per interpretare percorsi migratori oggi divenuti così multiformi e complessi? A queste e altre domande ha cercato di rispondere il progetto europeo “No tratta” che, dopo oltre un anno di lavori, in Italia si è concluso lo scorso 19 gennaio con un grande incontro a Roma di tutte le realtà coinvolte: da Cittalia, la Fondazione di Ricerche dell’Anci, alle associazioni come Gruppo Abele e On the Road, con il supporto del Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero dell’Interno e del Centro Interdipartimentale per i diritti dell’uomo e dei popoli dell’Università di Padova.

Sono state messe in campo numerose proposte con lo scopo di prevenire e contrastare il fenomeno, anche a livello legislativo e giudiziario, con un imperativo: tratta e immigrazione non si possono più trattare come due realtà distinte e perciò le conoscenze vanno integrate e ampliate. “Questo progetto è molto importante perché rivolto alla emersione e conoscenza del fenomeno della tratta e alla sensibilizzazione degli operatori in materia. La conoscenza del fenomeno è condizione senza la quale non si può operare in maniera attiva per aiutare chi è in difficoltà, a partire dai minori” ha detto Irma Melini, consigliere comunale di Bari e presidente della Commissione Immigrazione Anci. Proprio la raccolta dei dati è stato uno dei punti focali del progetto. Secondo l’ultimo rapporto dell’UNODC, citato nel report di Cittalia “Vittime di tratta e richiedenti/titolari di protezione internazionale”, nel 2010 sono state stimate 140.000 vittime arrivate in Europa soprattutto attraverso le rotte del Mediterraneo, dei Balcani, dei paesi dell’Est e della Turchia. Peccato che, proprio per la natura illegale e sommersa della tratta, le statistiche disponibili rappresenterebbero soltanto la “punta dell’iceberg”, senza contare “i limiti dovuti all’adozione di definizioni giuridiche non sempre convergenti e di differenti sistemi di raccolta dati”.

Così, tra le proposte lanciate dal progetto, cruciale diventa la creazione di un Osservatorio europeo sulla tratta, assieme ad un sistema nazionale di raccolta dati aggiornato e banche dati comunicanti che facciano riferimento al Sirit, il sistema informatizzato di raccolta informazioni sulla tratta del Dipartimento delle pari opportunità del Ministero dell’interno, garantendo così un monitoraggio della situazione il più aderente possibile alla realtà.

Una realtà che, proprio per le sue mille sfaccettature, il sistema di accoglienza italiano fa spesso fatica ad identificare: ci sono casi in cui queste persone sono invischiate nella tratta fin dalla partenza dal paese d’origine; altri in cui ci finiscono, volenti o nolenti, solo una volta arrivate nel paese di approdo – sole, deboli e disorientate, diventano gli obiettivi ideali di trafficanti e sfruttatori, che spesso agiscono negli stessi centri di accoglienza e/o di detenzione. Una volta coinvolte, spesso passano anni prima che vengano a conoscenza della possibilità di una qualche forma di tutela o di protezione internazionale. Altre volte invece, proprio la richiesta di asilo diventa funzionale al progetto delle reti di trafficanti, “che possono così avere a disposizione persone da sfruttare con titoli regolari per restare sul suolo italiano”.

Intervenire il prima possibile diventa quindi essenziale ed è anche il motivo per cui, tra le priorità del progetto “No tratta”, c’è anche la creazione di indicatori che permettano di riconoscere subito il fenomeno. A livello legislativo, invece, molto potrebbe fare la piena operatività del Testo Unico sull’immigrazione che prevede per le vittime di violenza un percorso specifico di assistenza e di reintegrazione sociale. Questi progetti, però, attualmente sono riservati a coloro che denunciano i propri sfruttatori: un gesto che pochi riescono a portare fino in fondo per il timore di minacce e ritorsioni che, nel caso degli immigrati, spesso colpiscono anche le famiglie rimaste al paese d’origine.

Così, tra vuoti legislativi e l’attesa di un piano nazionale, testimonianze come quelle riportate nel paper di Cittalia non sorprendono. Come la storia di J.E., nigeriana: fuggita dal suo villaggio per evitare l’infibulazione, finisce a fare la prostituta qui in Italia, tra violenze, minacce, arresti e una totale assenza di informazioni circa i suoi diritti. O la storia di A.P., pakistano, che ha dovuto lasciare il proprio paese in seguito a minacce di morte per il suo lavoro di insegnante. Arrivato in Italia cade nel sistema dello sfruttamento e del caporalato, lavorando nei campi pugliesi in condizioni disumane per pochi spiccioli al giorno, sopportando ogni tipo di abuso. I due immigrati, così come molti altri nella loro situazione, sono venuti a conoscenza della possibilità di richiesta asilo dopo molti anni, alla faccia della direttiva europea che, in teoria, obbligherebbe le autorità ad informare i cittadini terzi sui propri diritti. E il già criticato sistema degli hotspot, basato sulla differenziazione tra migrante economico e profugo, e sul cosiddetto “Foglio notizie” (un questionario a risposte multiple sottoposto ai migranti sui motivi del proprio viaggio) non fa ben sperare in un miglioramento.

Certo alcuni passi avanti sono stati fatti, pure in Italia. L’esempio positivo riportato è la città di Venezia, con il suo sportello pubblico di pronto intervento di assistenza legale e abitativa – che prevede progetti e percorsi di reinserimento individuale fino alla piena autonomia e integrazione sociale – e la gestione da parte dell’amministrazione veneta del numero verde nazionale anti tratta (800 290 290), attivo 24 ore su 24, gratuito e anonimo. Secondo Cittalia, si tratta di “una vera e propria best practice da replicare non solo a livello nazionale ma anche a livello europeo”.

E se la società civile italiana sa strada è ancora lunga, il progetto “No Tratta” ha lanciato la sfida. Tra le altre proposte in campo: l’introduzione nella normativa italiana del cosiddetto “periodo di riflessione” che permetta alle potenziali vittime, soprattutto le più vulnerabili come donne e minori, di usufruire di percorsi specifici per sottrarsi concretamente ai propri sfruttatori. E ancora: la non punibilità delle vittime di tratta forzate, l’utilizzo del sequestro e della confisca come fonti di finanziamento per il fondo destinato alle vittime, l’istituzione la figura di una relatrice o relatore nazionale sulla tratta che possa operare in modo indipendente, un maggiore monitoraggio dei centri di accoglienza. Soprattutto si punta al coinvolgimento collettivo degli operatori affinché acquisiscano una conoscenza pluridimensionale del fenomeno e delle procedure di assistenza. “Il progetto ‘No tratta’ ha preparato il terreno – ha detto Mirta Da Pra, esperta dell’associazione Gruppo Abele – ora si tratta di seminare insieme mettendo in comune le competenze con il sostegno della politica attraverso un piano nazionale e un programma unico”.

Fonte: www.unimondo.org, migrantotorino.it

 

 

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