(Riassunto della lezione del 12 aprile 2012 di “Geostrategia africana” al master 2 presso l’Istituto superiore di management – ISMA a Douala, Camerun)
Esiste un ambito in cui la propaganda occidentale eccelle in modo particolare nella manipolazione dell’opinione pubblica in Africa attraverso le sue ONG complici e i suoi governi. Si tratta dell’ambito inesistente e bugiardo del cosiddetto “trasferimento tecnologico”. Infatti bisogna ricordare che nella configurazione attuale del mondo e delle relazioni internazionali non esiste alcun trasferimento di tecnologia. Ciò si verifica per diversi motivi:
LE REGOLE DELL’UNIONE EUROPEA
La Commissione dell’Unione Europea col regolamento (CE) n° 772/2004 del 7 aprile 2004, vieta il trasferimento tecnologico tra imprese, e ne precisa le eccezioni, perché crede che questa pratica altera la concorrenza e impedisce il progresso della società. Nel momento in cui un’azienda aspetta che la sua rivale comunichi i suoi segreti di fabbricazione, non innova, non lotta per recuperare il proprio ritardo, il proprio handicap. Dall’altro lato, questa stessa pratica spinge l’impresa che dona a dormire sugli allori e a comportarsi da padrona, decidendo e manipolando le regole del mercato. In altre parole, se un’impresa svedese comunicasse i propri segreti di fabbrica alla sua rivale del Mali, come minimo la prima sta trasformando la seconda in una semplice spettatrice destinata prima o poi a scomparire oppure a restare nella marginalità, [a restare] un banale satellite dell’impresa svedese perché non sarà incoraggiata a nient’altro se non alla passività, a non fare ricerche, a non combattere per difendere la propria posizione e per conquistare nuovi mercati.
La Commissione Europea si spinge ancora più lontano nella sua definizione di “saper fare”, che non è tale se non comporta obbligatoriamente un elemento segreto. Ciò vuol dire che il fatto di comunicare a qualcuno un’informazione, una tecnica, una tecnologia che non è segreta, non può essere considerato come un trasferimento di “know how” (saper fare, NdT) ma si tratterebbe solo di una banale operazione per fare uscire qualcuno dall’ignoranza colpevole in cui si trova.
Ecco in dettaglio come la Commissione Europea descrive il saper fare, il Know-How :
“Saper-fare (know-how): un insieme di informazioni pratiche non brevettate, risultanti dall’esperienza e già provate, segreto (cioè che generalmente non è conosciuto o facilmente accessibile), sostanziale (cioè che è importante e utile per la produzione dei prodotti contrattuali) e identificato (cioè che è descritto in modo sufficientemente completo da permettere la verifica del rispetto delle condizioni di segretezza e di sostanzialità)”.
Se un’ONG insegnasse a degli agricoltori burkinabè ad utilizzare un trattore per lavorare sui loro terreni col fine di fare meno fatica fisica e di ottenere una più alta produttività e se la stessa parlasse di trasferimento di tecnologia, mentirebbe sapendo di mentire. Perché le tecniche che insegnerebbe sono pubblicamente disponibili da secoli. La domanda che ci si dovrebbe porre piuttosto è perché la comunità burkinabè non ha avuto accesso ad una tecnica agricola disponibile pubblicamente? Sia perché non ha i mezzi di procurarsela sia pierché non è stata informata. In un caso o nell’altro siamo di fronte a due specifici problemi da risolvere e che, in entrambi i casi, non hanno a che fare con un problema di trasferimento di tecnologia. In parole povere, nel primo caso l’ONG che arriva col trattore brucia le tappe e impedisce di affrontare il problema a monte impedendo la creazione delle ricchezze necessarie per l’appropriazione delle tecniche moderne. Nel secondo caso, il problema della formazione in Africa si pone in modo più evidente. Il 70% della popolazione africana vive nelle zone rurali e agricole. Nel paesi francofoni dell’Africa non esiste una scuola agraria e raramente ci sono dei licei specializzati in agricoltura. Nella maggior parte dei casi ci sono solo percorsi di formazione universitaria per diventare ingegnere agronomo, manca però tutta la formazione iniziale e intermedia attraverso cui si democratizzano le tecniche agricole.
Per la Commissione europea, qualsiasi trasferimento di tecnologia non deve contravvenire alle regole della concorrenza dell’Unione Europea, a cominciare dall’articolo 101 del trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). Questa semplice formula significa che non ci può essere un trasferimento di tecnologia tra un’impresa situata in un paese europeo e il suo concorrente con sede in un paese africano perché le due società lottano per conquistare gli stessi clienti, gli stessi profitti. E se il sistema è a somma zero, cioè che quello che guadagna l’uno è automaticamente perso dall’altro, per quale motivo un’azienda di successo dovrebbe mettersi i bastoni tra le ruote vendendo al suo concorrente i suoi segreti di fabbrica?
Anche se al paragrafo 3 di questo famoso articolo 101 ma anche negli articoli 3 e 4, la Commissione Europea specifica chiaramente le condizioni d’eccezione al divieto di trasferimento di tecnologia in assenza di un accordo con “effetti anticoncorrenziali gravi”, nella pratica esiste una tecnica per mettere le imprese africane in condizione di non nuocere, al di fuori di qualsiasi rischio di diventare un giorno delle potenziali minacce o dei concorrenti delle imprese europee.
UNA VERA E PROPRIA MANIPOLAZIONE
La macchinazione consiste a mettere la nozione del “trasferimento di tecnologia” in tutte le salse in modo da far credere alle imprese africane che il loro buongiorno verrebbe solamente dalla buona volontà di un “Bianco” particolarmente buono che indicherebbe loro la strada affinché anche loro possano vedere il sole della modernità industriale. Una volta abbassate le difese delle vittime, si passa alla seconda fase che consiste nel fare dell’Africa il deposito dell’obsoloscenza europea, il sacco della spazzatura della desuetudine occidentale. Dall’industria all’esercito, passando per l’abbigliamento e l’automobile, tutto è fatto per inondare l’Africa di prodotti, di macchine, di armi che garantiscono che il continente non sarà mai un pericolo, un concorrente o una minaccia per l’Europa.
Quando un’impresa spagnola decide di liberarsi di un macchinario, molto spesso è perché è un buco nero finanziario per il consumo di elettricità oppure perché il costo assai elevato di manutenzione limita la competitività dell’azienda rispetto ai suoi concorrenti. Cederlo a un’impresa marocchina vuol dire condannare quest’ultima a indebitarsi ulteriormente per un mezzo di produzione che dal giorno in cui viene acquistato non è concorrenziale. E’ un acquisto nocivo per il portafoglio dell’impresa marocchina e un affare insperato per la venditrice perché riesce ad ottenere dei soldi per un macchinario che è uscito da molto tempo dalla tabella degli ammortamenti. Per di più, se avesse deciso di buttarla nella spazzatura sarebbe stata obbligata a pagare un’azienda specializzata per smontare l’insieme del macchinario e trattare in modo diverso ogni residuo onde evitare che le parti inquinanti finiscano nella natura. Cedendo la propria spazzatura all’impresa marocchina, realizza un doppio profitto: mantenere il suo potenziale concorrente in uno stato di non dannosità e risparmiare i soldi dello smaltimento ecologico.
E’ con lo stesso spirito che i veicoli spazzatura sono stati sversati in Africa con l’obiettivo molto chiaro di impedire l’emergere di marche concorrenti di automobili africane, capaci di mettere a rischio il succoso mercato europeo dell’automobile. Così facendo, contemporaneamente si costringeva l’Africa ad essere un mercato sicuro per le auto francesi e britanniche. Tutto ciò è durato fino a quando è spuntato fuori un terzo ladrone che nessuno prevedeva, il Giappone era venuto a perturbare quel “situazione” (magot).
Nel settore dell’industria dell’abbigliamento, gli abiti-stracci già indossati fino all’esaurimento dagli europei chiamati “”fronzoli” e dopo inviati in Africa per una seconda vita, avevano come principale obiettivo quello d’impedire che una vera industria tessile nascesse in Africa. Così facendo, l’Europa poteva contare su una mano d’opera africana sfruttata a piacimento e si assicurava la disponibilità di un cotone africano a buon mercato, dato che non veniva lavorato a livello locale, aiutata in questo dal finanziamento pubblico ai produttori americani di cotone. Negando ogni potere contrattuale dei produttori africani sul loro cotone.
QUALI LEZIONI PER L’AFRICA ?
Il trasferimento di tecnologia non esiste. E’ solo un’espressione virtuale che non può trovare la sua applicazione in un mondo reale d’impresa in cui la competizione è senza esclusione di colpi. La vera differenza tra le nazioni si misura oggi nel numero di brevetti depositati ogni anno. L’Africa deve rifiutare questa marginalità psicologica in cui è rinchiusa e copiare i brasiliani, gli indiani e i cinesi che passano il loro tempo a valutare i brevetti arrivati a scadenza per recuperare molto velocemente il loro ritardo sul piano tecnologico. Questo vale per tutti i settori, dalla meccanica alla petrochimica passando per la farmaceutica. Tutti i brevetti detenuti dai forti per un certo periodo finiscono un giorno o l’altro nell’ambito pubblico ed è là che bisogna andare ad accaparrarsi il proprio trasferimento di tecnologia, è là che bisogna andare e prelevare per se stessi ciò che i vecchi proprietari non vogliono lasciare. Bisogna partire da questi brevetti accaparrandoseli gratuitamente alla scadenza per lanciarsi in questa concorrenza internazionale dell’intelligenza concretizzata nei brevetti, nel diritto d’autore, nel copyright. Ogni anno centinaia di brevetti sui farmaci di cardiologia, neurologia, ecc finiscono nell’ambito pubblico e chiunque può riprodurli a piacimento e nella piena legalità. Migliaia di prodotti informatici, pezzi meccanici, sistemi idraulici, ecc. finiscono nel dominio pubblico e qualsiasi start-up può avviare la sua attività a Lagos, a Kinshasa, a Niamey o a Lusaka copiandoli senza pagare un centesimo in ricerche o diritti d’autore. L’Italia l’altro ieri, il Giappone ieri, la Cina oggi si sono alzate riducendo il loro ritardo tecnologico copiando sistematicamente tutti i brevetti appena scaduti e perciò di dominio pubblico per non ricominciare da meno zero. E’ questo che li ha messi in una posizione privilegiata per superare i vecchi proprietari di quei proprietari. L’Africa non può accontentarsi di aspettare di riciclare le tecnologie obsolete e inutili che si decide di vendergli a peso d’oro. Tutti gli uffici di brevetti in occidente pullulano di opere, di dettagli sui vecchi segreti di fabbrica che sono ormai a disposizione gratuitamente. Bisogna solo avere il coraggio di andare a prenderli lì dove sono. Il trasferimento di tecnologia, se esiste, non è un atto divino ma dimostra innanzitutto un vigore, una forza morale e una determinazione incrollabile di voler frequentare la corte dei grandi di quel mondo, non più come domestici, come valletti, come servitori ma come concorrenti, come cervelli, come intelligenza. E su questo argomento l’Africa non ha nulla da invidiare alle altre nazioni, agli altri continenti. [Spetta] ai poteri pubblici africani capire ciò che possono guadagnare facilitando e incoraggiando i giovani a creare delle “start-up” con procedure amministrative semplificate. Anche attraverso quest’appropriazione di tecnologia otterremo la nostra vera indipendenza.
Douala, 12 aprile 2012.
Jean-Paul Pougala
pougala@gmail.com
www.pougala.org
www.geostrategieafricaine.com
[Traduzione di Piervincenzo Canale]