Comunicato stampa –
Roma, 12 gennaio 2011 –
«Le lunghe code registrate in questi giorni davanti ai seggi elettorali testimoniano la voglia di partecipazione alla vita democratica del popolo sudsudanese e la speranza di lasciarsi definitivamente alle spalle i tanti lutti e le terribili sofferenze provocate da decenni di guerra civile.
Perché ciò avvenga davvero, però, è fondamentale che l’attenzione e il sostegno della comunità internazionale non vengano meno dopo questo storico evento».
A dirlo è Mario Raffaelli, presidente della sezione italiana di AMREF, principale organizzazione sanitaria no profit africana, in occasione del referendum che dovrebbe sancire la nascita dello Stato indipendente del Sud Sudan.
Per Raffaelli, già sottosegretario agli Affari esteri incaricato per l’Africa tra il 1983 e il 1989, capo mediatore del processo di pace in Mozambico tra il 1990 e il 1992, e inviato speciale del governo italiano per il Corno d’Africa tra il 2003 e il 2008, il referendum rappresenta «la premessa indispensabile per lo sforzo successivo, che dovrà garantire che l’implementazione dell’esito del voto possa avvenire minimizzando i rischi di escalation di violenza fra le due entità sudanesi, incoraggiando invece la migliore cooperazione possibile nel nuovo quadro.
Una cooperazione particolarmente importante anche per il Sud, date le sue condizioni di estrema arretratezza».
Il Sud Sudan, infatti, è ancora segnato dalle cicatrici della guerra civile scoppiata nel 1983 e conclusa 22 anni dopo, che ha provocato oltre due milioni di morti, quattro milioni di sfollati, la distruzione quasi totale di scuole, strade, ponti, ospedali e l’esodo all’estero della maggioranza di medici e infermieri.
Le ferite della guerra si riflettono ancora oggi negli indicatori sanitari del Paese, tra i peggiori del mondo: il 48 per cento dei bambini sotto i cinque anni è malnutrito, solo uno su quattro è vaccinato contro il morbillo, e soltanto il cinque per cento dei parti è seguito da staff specialistico.
Per rispondere a questa grave emergenza, fin dal 1998, a conflitto ancora in corso, AMREF ha sostenuto attivamente l’Istituto Nazionale di Formazione Sanitaria di Maridi, l’unica scuola di formazione per assistenti medici e ostetriche comunitarie in tutto il Sud Sudan.
Gli assistenti medici formulano diagnosi, praticano operazioni chirurgiche di base come parti cesarei e appendiciti, insegnano educazione sanitaria comunitaria e gestiscono piccole strutture locali.
Sono i medici del Sud Sudan, addestrati però con un decimo dei costi di formazione di un dottore e nella metà del tempo.
«In vista del referendum – precisa Raffaelli – AMREF si è mobilitata anche per fare fronte al ritorno al Sud degli sfollati fuggiti al Nord a causa della guerra, ai quali è necessario fornire assistenza socio-sanitaria e un alloggio.
Sull’onda dell’entusiasmo, infatti, molti di loro hanno venduto tutto quello che possedevano e si sono diretti a sud portando con sé solo lo stretto indispensabile.
Una volta passata l’euforia del voto sull’indipendenza, però, la loro reintegrazione nelle aree rurali segnate dalla povertà non sarà facile.
In particolare stiamo collaborando con i nostri partner locali per individuare i problemi sanitari generali e i servizi curativi, di prevenzione e promozione necessari per affrontarli, con un’attenzione speciale per malaria, vaccini, nutrizione, Hiv/Aids e salute riproduttiva».
Dopo il referendum, il cui risultato sarà ufficializzato solo in febbraio, resteranno da affrontare alcune questioni spinose, a partire dalla definizione delle frontiere della regione dell’Abyei, la più ricca di petrolio e per questo motivo di tensione tra il Nord e il Sud.
«La posta in gioco – spiega Tommy Simmons, direttore generale di AMREF Italia – è il controllo dell’export dell’oro nero, attualmente nelle mani del Nord, e resta irrisolto anche il nodo della gestione delle risorse idriche, che coinvolge altri Paesi come l’Egitto».
Il governo di Khartoum, inoltre, ha già reso noto che, se vinceranno i sì al referendum, ai due milioni di sudsudanesi che vivono nel Nord non sarà riconosciuta la cittadinanza.
«Siamo molto preoccupati per la loro sorte – aggiunge Simmons – Nessuno può prevedere cosa accadrà, anche perché a ciò si aggiungono le tensioni tribali tra i diversi gruppi etnici, tuttora irrisolte. Sono dinamiche che possono diventare esplosive e mettere a repentaglio il futuro di oltre cinque milioni di persone».
Fonte: Amref