Le strade rimbombano ancora dell’eco degli spari: dall’inizio del mese sono circa 250 i morti, 400 i feriti e almeno 23 mila profughi.
È il 21 settembre, a Mogadiscio, la città che non conosce pace. Omar Abdirashid Ali Sharmarke, il primo ministro della Repubblica, si dimette: “Dopo aver valutato la crisi politica nel governo e la crescente insicurezza della Somalia, ho deciso di rassegnare le dimissioni”. Il suo mandato è durato solo sette mesi. Aveva già tentato di lasciare lo scranno del comando a maggio, ma all’epoca il presidente Sharif Sheikh Sharif Ahmed aveva respinto la sua richiesta: “Il primo ministro resta al suo posto”. Eppure a Villa Somalia, la sede del Governo, tirava già aria di tempesta.
Oggi l’ex vice premier, Abdiwahid Elmi Gonjeh, è stato nominato premier ad interim.
Sharif Ahmed e Sharmarke rappresentano le due anime politiche del Paese: il primo è un esponente moderato delle Corti islamiche, l’altro è il figlio dell’ex presidente somalo Abdirashid Ali Sharmarke, assassinato a Los Anood (Somaliland) nel 1969: un laico convinto. “Tutto lasciava intendere che tra i due ci potesse almeno essere collaborazione”, dice Federico Battera, ricercatore in Storia e istituzioni dell’Africa presso la facoltà di Scienze politiche presso l’università di Trieste. “Forse, i problemi maggiori erano con il Parlamento. Sharmarke ha vissuto a lungo in esilio, in Canada. Era abituato ad una politica fatta diversamente”.
Il Governo si sfilaccia proprio nel pieno dell’attacco mosso dalle milizie fondamentaliste di Al Shabaab. L’annuncio era stato dato poco prima dell’inizio del Ramadan. E non a caso, le violenze si sono moltiplicate proprio a partire dall’ultima settimana di agosto, al termine del mese sacro.
“La strategia degli attentatati è legata alla fragilità dei controlli delle autorità e dell’Amisom, le truppe di peacekeeping dell’Unione africana. “L’obiettivo è quello di logorare il Governo”, spiega Battera. Ma l’inasprirsi del conflitto risponde anche ad una logica interna al movimento terrorista.
“La leadership di Al Shabaab è passata ad un gruppo con un basso profilo clanico ma che ha legami molto forti con i network internazionali che finanziano le milizie fondamentaliste”, aggiunge.
Ad agosto, si era parlato pure di una fusione tra i Al Shabaab e Hizbul Islam, il Partito islamico, il secondo gruppo terroristico più importante del Paese. L’ultima notizia a riguardo, è una smentita a firma del giornale arabo al-Sharq al-Awsat. Di certo c’è che il nuovo gruppo dirigente ha innalzato il livello del conflitto. Ma l’aver fatto a meno dei vincoli tribali potrebbe rivelarsi controproducente: “Non mi meraviglierei se fra qualche tempo Shabaab perdesse un po’ di terreno – prosegue Battera -. Potrebbe darsi che alcuni gruppi si stacchino senza un vincolo clanico. Senza di esso, la popolazione diventa cooptabile. Non basta l’ideologia per convincere i somali per abbracciare le armi”. E chiosa: “Mogadiscio si trovava nelle stesse condizioni 9-10 anni fa”.
Dall’inizio dell’anno, secondo l’Alto commissariato per i rifugiati (Unhcr) sono almeno 200mila gli sfollati, di cui 37mila sono andati in Kenya, forse 7 mila in Yemen e 20 mila in Etiopia. La maggior parte degli altri, probabilmente, è rimasta in Somalia.
“Non esiste un conteggio esatto dei campi profughi – asserisce Abdirashid Abdulle Abikar, corrispondente da Mogadiscio per l’Agence France Press – ma esperti locali stimano che siano circa 1100 entro i confini nazionali e molti altri sparpagliati tra i paesi limitrofi”.
Un’inchiesta pubblicata dal Suna Times, uno dei pochi giornali liberi del Corno d’Africa, denuncia la situazione in cui gravano i campi finiti nelle mani delle milizie islamiche: qui, le donne sono costrette a sposarsi con i guerriglieri e a dar loro dei figli.
Secondo il rapporto, le donne in queste condizioni sono “4.560, il 55% delle quali ha un’età compresa fra i 14 e i 25 anni”. “La vita in un campo è disperata – prosegue Abikar -. Si è fortunati se si ha dell’acqua da bere e un luogo dove ripararsi dal sole, dalla polvere, dal vento e dalla pioggia”.
Vano lo sforzo di molti che tentano di lasciare il continente: “Migliaia di loro trovano la morte nel deserto tra, Sudan e Libia, e nel pericoloso viaggio attraverso il Mar Rosso, per raggiungere lo Yemen e la loro ultima meta: l’Arabia Saudita. Si stima che solo il 2% riesca nell’impresa”.
Testo di Lorenzo Bagnoli, redattore sociale
Foto: BlatantNews.com, DanielJGerstle,