Lo scotch serve a immobilizzare i reclusi. Basta girarlo più volte e ben stretto intorno ai polsi e alle gambe. E quando strillano pure sulla bocca. L’iniezione invece si fa alle ragazze. Perché anche loro a volte non fanno le brave, ma bisogna pure essere cavalieri e allora meglio un sedativo che le botte. Infine le lamette, da rasoio.
Quelle le usano uomini e donne. Ma serve tanta disperazione quanto coraggio. O ti ci tagli le vene o le ingoi. E se ti va bene che resti in vita, finisci al pronto soccorso da dove anche se non riesci a scappare, puoi comunque considerarti fortunato che non ti hanno rimpatriato. Vale la pena arrivare a tanto pur di non rientrare nel proprio paese? Non sta a noi deciderlo. Non ci interessa qui stilare una classifica del dolore per decidere a chi concedere il diritto di viaggiare. Qui ci interessa raccontare che cosa sta diventando la Fortezza Europa. Le ultime storie arrivano ancora dal centro di identificazione e espulsione di Ponte Galeria, a Roma. Qui, nell’ultima settimana, proteste e episodi di autolesionismo hanno fatto saltare almeno una decina di espulsioni programmate. Gli ultimi due nigeriani, un ragazzo e una ragazza, erano già saliti sull’aereo per Lagos, quando a bordo è scoppiata la protesta.
È successo tutto il pomeriggio del 19 luglio. Il ragazzo sono andati a prenderlo in cella di notte. Sono entrati in una decina di poliziotti e l’hanno immobilizzato con del nastro adesivo. La ragazza invece non ha opposto resistenza. Ma ha dovuto insistere perché non le facessero la “puntura”, come la chiamano le altre compagne di cella. Arrivati all’aeroporto di Fiumicino, che dista pochi chilometri dal Cie, il ragazzo ha di nuovo opposto resistenza. Ciononostante l’hanno caricato di forza sull’aereo ma lui ha continuato a divincolarsi anche a bordo del volo di linea. Fin quando – così ci raccontano – anche i passeggeri sarebbero intervenuti protestando per le violenze a bordo. Tutto annullato dunque. E così li hanno riportati a Ponte Galeria. Lui ha una benda sulla faccia. Pare che sia stato picchiato sia a bordo dell’aereo che dopo. La ragazza è sotto shock. E sotto shock sono anche le sue compagne di cella. Soprattutto la marocchina.
Si chiama Fatima, ha 32 anni e viene da Khouribga. La capitale dei giacimenti di fosfato e dell’emigrazione marocchina in Italia. Un’economia gonfiata come una bolla di sapone dalle rimesse di tanti lavoratori espatriati e di qualche trafficante che in Italia, soprattutto a Torino, controlla droga, prostituzione e contraffazione dei documenti. Ma Khouribga è anche altro. È disoccupazione e miseria, vite di scarto tra cui si nascondono uomini alcolizzati e violenti. Uomini come il marito di Fatima. Suo padre la dette in sposa che aveva soltanto 14 anni. Le botte arrivarono poco dopo. Le cicatrici dei tagli delle bottigliate, sparse su tutto il corpo, sono lì a ricordarle ogni giorno da dove è scappata. Non dalla guerra, non dalla miseria. Semplicemente da un uomo violento e da una piccola cittadina di campagna dove non avrebbe potuto rifarsi una vita nonostante la giovane età. In Italia è arrivata un anno e mezzo fa con un visto che poi è scaduto. Sembrava un sogno, ma ormai assomiglia di più a un incubo.
Due giorni fa, quando sono venuti a annunciarle che lei e Khadija saranno espulse questa settimana, non c’ha più visto. E la tensione accumulata in quattro mesi e mezzo di detenzione dietro le sbarre di Ponte Galeria è esplosa in un unico gesto. Si è procurata un ferro e si è tagliata la pancia vicino alla cicatrice che le fa più male. Quella del parto cesareo, ricordo di un’operazione in cui perse i due bambini che aveva in grembo.
Fortunatamente i tagli che si è fatta sono soltanto superficiali e non rischia niente. In infermeria ieri ne hanno medicati altri due messi molto peggio di lei. Sono un tunisino e un marocchino. Si sono tagliati quando la polizia è venuta a chiamarli per il rimpatrio insieme a altri quattro arabi. Il tunisino vive in Italia da 19 anni ed è rinchiuso nel Cie da cinque mesi. Lui è il meno grave, qualche taglio alle gambe e al braccio sinistro. Per il marocchino invece la situazione è più complicata. Perché i tagli sono più profondi. Ma a Ponte Galeria nessuno più si scandalizza per il sangue che schizza.
La polizia glielo ha già detto. “Se non volete venire con le buone, la prossima volta facciamo alla nostra maniera”. Aspetteranno qualche giorno, e torneranno a prenderli. Stavolta però con i manganelli e il nastro adesivo, quello marrone, per impacchettarli tipo un pacco postale.
In quei casi l’unica cosa da fare è ingoiare una lametta. Difficile portarla fuori, perché prima di caricare i reclusi sulla volante per l’aeroporto, la prassi è di spogliarli nudi e di perquisirli dappertutto, genitali compresi. A volte però ci riescono lo stesso.
Ci è riuscito un tunisino la settimana scorsa. L’hanno tenuto un giorno in isolamento, e il giovedì l’hanno preso per portarlo in aeroporto, ma quello si è ingoiato una lametta che era riuscito a tenere nascosta. L’obiettivo era perdere l’aereo, farsi medicare e scappare. Le cure sono arrivate, ma la fuga no. L’hanno riempito di botte e riportato al Cie il giorno dopo, segnato sul collo e sulla schiena dagli ematomi del pestaggio. Niente di cui scandalizzarsi. Con gli ossi duri non si usano cortesie. Aspetteranno qualche giorno e torneranno a prenderlo. Alla loro maniera. Tanto adesso che la stampa non entra più nei Cie, non c’è nessuno che controlla.
PS Per tutelare la privacy e la sicurezza dei nostri intervistati, abbiamo utilizzato nomi di fantasia. Il video è stato girato con un telefonino da uno dei tunisini reclusi a Lampedusa e mostra uno dei detenuti mentre si taglia le braccia per protesta
http://www.youtube.com/watch?v=zCZnvLKQ_ck
– di Gabriele Del Grande –
Fonte: fortresseurope.blogspot.com