Sciopero 1 marzo: lettera scrittori, giornalisti, blogger

Pubblichiamo questa lettera ricrvuta via mail dal giornalista Daniele Barbieri.

Lettera di scrittori-scrittrici, giornaliste/i e blogger contro il razzismo a sostegno del primo marzo, “una giornata senza di noi”

Noi scrittori e scrittrici migranti e stanziali, giornaliste/i, blogger che operano in Italia abbiamo deciso di aderire alla giornata del primo marzo, “una giornata senza di noi”, rendendoci visibili attraverso la scrittura, impegnandoci a creare, diffondere ed elaborare occasioni per promuovere in maniera pubblica la riflessione attraverso scritti che affrontino le tematiche espresse in questa giornata. Ci impegniamo già fin da ora a creare un fondo di testi che sarà accessibile nella pagina web del Comitato Primo Marzo e forniamo come esempio i due testi che seguono:

il primo, la lettera dei lavoratori africani di Rosarno, riunitisi in assemblea a Roma alla fine di gennaio,

e il secondo, stralci dalla lettera aperta ai calabresi dell’antropologo calabrese Vito Teti, in risposta ai drammatici fatti di Rosarno:

“I mandarini e le olive non cadono dal cielo

In data 31 gennaio 2010 ci siamo riuniti per costituire l´Assemblea dei lavoratori Africani di Rosarno a Roma.

Siamo i lavoratori che sono stati obbligati a lasciare Rosarno dopo aver rivendicato i nostri diritti.

Lavoravamo in condizioni disumane. Vivevamo in fabbriche abbandonate, senza acqua né elettricità. Il nostro lavoro era sottopagato. Lasciavamo i luoghi dove dormivamo ogni mattina alle 6.00 per rientrarci solo la sera alle 20.00 per 25 euro che non finivano nemmeno tutti nelle nostre tasche.

A volte non riuscivamo nemmeno, dopo una giornata di duro lavoro, a farci pagare. Ritornavamo con le mani vuote e il corpo piegato dalla fatica. Eravamo, da molti anni, oggetto di discriminazione, sfruttamento e minacce di tutti i generi.

Eravamo sfruttati di giorno e cacciati, di notte, dai figli dei nostri sfruttatori. Eravamo bastonati, minacciati, braccati come le bestie…prelevati, qualcuno è sparito per sempre.

Ci hanno sparato addosso, per gioco o per l´interesse di qualcuno. Abbiamo continuato a lavorare. Con il tempo eravamo divenuti facili bersagli.

Non ne potevamo più.

Coloro che non erano feriti da proiettili, erano feriti nella loro dignità umana, nel loro orgoglio di esseri umani. Non potevamo più attendere un aiuto che non sarebbe mai arrivato perché siamo invisibili, non esistiamo per le autorità di questo paese. Ci siamo fatti vedere, siamo scesi per strada per gridare la nostra esistenza.

La gente non voleva vederci.

Come può manifestare qualcuno che non esiste?

Le autorità e le forze dell’ordine sono arrivate e ci hanno deportati dalla città perché non eravamo più al sicuro.

Gli abitanti di Rosarno si sono messi a darci la caccia, a linciarci, questa volta organizzati in vere e proprie squadre di caccia all´uomo.
Siamo stati rinchiusi nei centri di detenzione per immigrati.

Molti di noi ci sono ancora, altri sono tornati in Africa, altri sono sparpagliati nelle città del Sud.

Noi siamo a Roma. Oggi ci ritroviamo senza lavoro, senza un posto dove dormire, senza i nostri bagagli e con i salari ancora non pagati nelle mani dei nostri sfruttatori.

Noi diciamo di essere degli attori della vita economica di questo paese, le cui autorità non vogliono né vederci né ascoltarci. I mandarini, le olive, le arance non cadono dal cielo. Sono delle mani che li raccolgono.

Eravamo riusciti a trovare un lavoro che abbiamo perduto semplicemente perché abbiamo domandato di essere trattati come esseri umani.

Non siamo venuti in Italia per fare i turisti.

Il nostro lavoro e il nostro sudore serve all´Italia come serve alle nostre famiglie che hanno riposto in noi molte speranze.

Domandiamo alle autorità di questo paese di incontrarci e di ascoltare le nostre richieste:

 domandiamo che il permesso di soggiorno concesso per motive umanitari agli 11 africani feriti a Rosarno, sia accordato anche a tutti noi, vittime dello sfruttamento e della nostra condizione irregolare che ci ha lasciato senza lavoro, abbandonati e dimenticati per strada.

Vogliamo che il governo di questo paese si assuma le sue responsabilità e ci garantisca la possibilità di lavorare con dignità.

L´Assemblea dei Lavoratori Africani di Rosarno a Roma”

Vito Teti
“Abbiamo smarrito il senso della nostra storia”
in “Il Quotidiano della Calabria”, lunedì 11 gennaio, 2010,

Sprofondati sui nostri divani, li osserviamo mentre fuggono scacciati da Rosarno.

Noi vagamente impegnati nei propositi buoni per smaltire gli stravizi alimentari delle feste, le nostre pattumiere appena svuotate da chili di pane, panettoni e cibi che li avrebbero nutriti per un mese almeno, lì nei baracconi dismessi, dove non cercavano riparo nemmeno gli animali.

Sfilano le immagini nelle nostre case comode – magari incompiute, frutto di sacrifici – di quei lager più vergognosi forse di quelli nazisti.

Noi che sprechiamo acqua come nessuno in Europa, qui nella terra dei profumi – agrumi spremuti a sangue? – li vediamo improvvisare un muro di vecchi copertoni d’automobile e qualche calderone d’acqua calda, pur di riuscire a lavare via fatiche inimmaginabili.

Noi che siamo stati emigrati, che siamo fuggiti, che abbiamo conosciuto il razzismo degli altri, ci chiediamo ora cosa abbiamo fatto per impedire questo strazio.

Noi, eredi degli emigrati che sono stati chiamati gipsy, zingari, «razza maledetta», «uccisori di Cristo», noi abitatori di una terra, in passato, chiamata “Africa” o “India”, noi nipoti e figli di uomini vissuti nelle baracche e morti nelle miniere, pensiamo mai ai sentimenti di tutta questa umanità dolente?

Siamo eredi di mille popolazioni “straniere”, abitiamo una terra crogiuolo di popoli, ma non li abbiamo trattati come uomini.

Dell’ospitalità facciamo vanto e retorica, proclamiamo l’odio per ogni forma di violenza, noi che comprendiamo la paura della gente di Rosarno e la sua irritazione per la “guerriglia” degli immigrati, noi che non pensiamo che siamo diventati improvvisamente razzisti, noi che abbiamo contribuito con la nostra ipocrisia, i nostri silenzi, le nostre complicità a trasformare queste persone in fiere arrabbiate, ma forse le bestie inferocite siamo proprio noi, pronti a braccare, o ad applaudire chi stana le prede.

Noi figli dei contadini che hanno occupato le terre, noi che abbiamo sfilato nella piana contro i caporali e abbiamo pianto Giuseppe Valerioti, ucciso dalla ndrangheta, abbiamo perso la memoria, smarrito il senso della nostra storia.

Noi che abbiamo cercato pane e lavoro in tutto il mondo, li guardiamo fuggire su un pullman, scortati dalla polizia per evitare il linciaggio.

Noi “fieri” e “forti calabresi”, noi che gliela abbiamo “fatta pagare a questi sporchi negri”, noi che “abbiamo liberato il territorio dalla feccia dell’umanità”, quando e perché abbiamo accettato di perdere la libertà, siamo caduti sotto il governo della ndrangheta, che manipola le nostre vite, le nostre case, i nostri legami, le nostre passioni?

[…]. Noi che non abbiamo dubbi e noi che non abbiamo certezze, troviamo il coraggio di fissare questa pagina dolorosa della nostra terra che evoca, e non sembri un’esagerazione, l’eccidio dei Valdesi voluto dagli oppressori del passato.

Noi che ci lamentiamo e non ci ribelliamo, che conosciamo la retorica e le perversioni dell’onore e magari manteniamo ancora il senso della dignità e proviamo vergogna, troviamolo il coraggio di ringraziare questi emigrati che sono fuggiti muti e increspati come le nubi di questi giorni che hanno cancellato le nuvole bionde e sorridenti della Piana.

Chiediamoci noi – tanto e tale è il disagio – che idea abbiamo di questo noi, chi siamo diventati, noi. E come sarei tentato di chiamarmi fuori da questo noi!

Firmatari

Hamid Barole Abdu (contribuisco al fondo degli scritti la poesia “Anfibi rasati”)

Pina Piccolo (contribuisco al fondo degli scritti “Rapsodia in giallo”)

Julio Monteiro Martins (contribuisco al fondo dei testi “La pala di Daouda)

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