Mentre il mondo celebra ancora la vittoria di Barack Obama, e l’Africa lo fa con un entusiasmo particolare, specialmente in Kenya, nella vicina Repubblica democratica del Congo si sta scrivendo un nuovo capitolo di una tragedie che da 15 anni sconvolge la vita delle popolazioni di tutta l’area dei grandi Laghi.
Dalla fine di ottobre i combattimenti tra le truppe di Laurent Kunda e quelle dell’esercito regolare del Congo sono ripresi nella regione del Kivu, più violenti che mai, a cui la Monuc assiste impotente e impacciata.
Poco importano, in questa sede, la cronaca militare, i retroscena politici, le ambizioni, dichiarazioni e accuse reciproche dei contendenti, le promesse e silenzi delle istituzioni internazionali.
Insopportabile è invece il dramma che stanno vivendo le popolazioni civili. Massacri, esecuzioni sommarie, stupri, saccheggi compiuti contro di loro da entrambe le parti sono l’infame segno distintivo di ciò che sta succedendo, e sono diverse centinaia di migliaia le persone costrette a scappare e ad abbandonare tutto per salvaguardare la vita.
Questi profughi danno ulteriore consistenza alla vera e propria diaspora nata col genocidio del ’94 in Rwanda e il cui numero è andato crescendo dopo ogni crisi nell’area; si tratta di oltre un milione di persone che percorrono la regione in lungo e in largo alla ricerca di un approdo sicuro e duraturo, per fuggire alla stretta di signori della guerra assetati di potere, di denaro e di sangue.
Gli occhi delle bambine e dei bambini in fuga, troppo spaventati, affamati e stanchi per poter piangere, sono l’espressione più crudele dell’onda lunga del ’94, che coinvolge tutta la regione e che non accenna a placarsi e tanto meno a rifluire. Ma sono anche un implacabile atto d’accusa nei confronti dell’Onu come dell’UA e della UE, di tanti stati direttamente coinvolti e responsabili o “semplicemente” indifferenti. Quegli occhi ci dicono che il problema non è né avrà una soluzione istituzionale, e ci chiamano tutte e tutti in causa.
Mamadou Ly