di Daniele Barbieri
Mi sono innamorato. Di un Paese, di un popolo e pure dei progetti sostenuti dai viaggi di turismo responsabile di «Chiama il Senegal»: d’altronde era inevitabile perchè il nome dell’associazione si può leggere Chi ama il Senegal. Non credevo che a 61 anni ancora ci innamorasse così. Per me da qualche settimana si scrive sempre Senegal ma io lo pronuncio Sen(z)’eg(u)al. Uno stupido giochino di parole, penserà chi legge: esatto, deliri da innamorati.
Quel che è accaduto a me però è capitato, chi più e chi meno, fra dicembre e gennaio a un’altra ventina di viaggiatori e viaggiatrici. E prima… ad altre/i. Allora forse non è un fatto privatissimo. E vale raccontarlo. Se siete in cerca di amori corrisposti… chissà, potrebbe essere la volta buona.
Scalo in maschera
Per arrivare a Dakar siamo passati da Tripoli: ci accolgono con mascherine e scanner che pare misurino la temperatura del corpo: lotta alla “peste suina”? Misura anti-terrorismo?
O rappresaglia psicologica contro gli europei infetti di tutto? Mi piace l’ultima ipotesi ma la Libia d’oggi, con i suoi lager, non mi pare degna di criticare l’Europa che si riscopre razzista. Viva sempre Omar Mukhtar che si battè contro i fascisti italiani ma abbasso il Gheddafi d’oggi che con i nuovi fascisti si allea.
Lunga vita alle Tontine
Chi legge «Come» saprà cos’è il micro-credito. E qui ne abbiamo trovato molto. Ma ne esiste in questa parte dell’Africa una variante comunitaria intelligente quanto antica. Si chiamano Tontine: sono gruppi di villaggio (o di lavoro) che mettono in comune quote di denaro per darle a rotazione a ognuna/o in modo da sostenere un bisogno o un progetto. Nei suoi libri Serge Latouche ne fa un grande elogio. Qui in Sen(z)’eg(u)al – e nella migrazione – sono soprattutto donne ad animare le Tontine. La bravissima Elisa Mereghetti ne ha raccontato in «Per non restare a braccia conserte» (www.ethnosfilm.com), un documentario del ’96. Ma l’origine del nome sfugge ai più. Invece sarebbe una bella storia da raccontare. In estrema sintesi: vennero inventate da un economista napoletano alla corte di Francia finito in disgrazia: però le Tontine sopravvivono in Francia e trovano nuova vita nelle colonie. La storia, a volte, è una sorridente maestra.
Donne
Va subito chiarito che in Senegal le varie versioni dell’Iislam sono all’opposto dei fascismi-integralismi che opprimono la ricca Arabia saudita (alleata degli Usa) come i talebani del povero Afghanistan (nemici degli Usa, ma guarda che strano). Discorso lungo ma lo accenno solo per ricordare che le donne qui non sono velate e oppresse. Protagoniste, pur dentro una società che (come tante) resta patriarcale e maschilista.
Yayi Bayam Diouf, fondatrice di Coflec (il Collettivo di donne senegalesi contro l’emigrazione clandestina) è stata in Italia in novembre per il convegno annuale di «Chiama l’Africa». Però incontrarla nella sua Thiaroyè sur Mer è assai diverso. Abbiamo passato una giornata – per metà discorsi seri e per l’altra metà festa – con lei e con il Coflec. Vedere è ben più che ascoltare un bel discorso.
Thiaroyè sur Mer
«Dobbiamo imparare a incontrarci noi africani e voi euopei» esordisce Yayi Bayam : «Gli Stati non lo fanno ma le persone, la società civile stanno tentando». Sottolinea che, pur fra molte differenze, le europee e le africane hanno molto in comune, più degli uomini. Un messaggio femminista particolarmente forte in un villaggio dove lei è la prima donna ammessa nel “consiglio dei saggi”.
L’associazione nasce nel 2006 dopo l’ennesima strage in mare (negli ultimi 10 anni sono morte in mare oltre 150 persone). Yayi Bayam perde l’unico figlio. Sfidano l’oceano con le piroghe anche per colpa degli accordi commerciali Senegal-Ue che danneggiano i piccoli pescatori: così i giovani, senza lavoro, vogliono partire. Troppo spesso vanno via per morire, essere incarcerati, qualche volta per fare in Europa una vita da schiavi, raramente per tornare ricchi (fra virgolette si intende). Se alle madri che hanno perduto i figli o alle vedove viene quasi data la colpa di quel che è successo – «perchè non li avete fermati?» è un ritornello che alcuni uomini provano a intonare – la risposta non può essere che organizzarsi per creare attività e relazioni sociali che diano valore al restare qui.
Progetti e sorrisi
Ecco cosa si sta facendo, dicono orgogliose les femmes di Thiaroyè sur mer. Lavori in batik, stoffe, vestiti, artigianato, conservazione e inscatolamento di pesce, un sapone quasi miracoloso ma anche alfabetizzazione, formazione al lavoro e uno straordinario gioco (inventato da un medico senegalese: amdiallo@sentoo.sn ove chi legge volesse contattarlo) con biglie e figurine per insegnare a correttamente curarsi, evitare gravidanze pericolose, allattare, dar valore a bambine e bambini (che qui riempiono le strade ma non per delinquere e quasi mai per mendicare ma per regalare sorrisi). I piccoli-grandi miracoli delle donne… accompagnate da uomini che hanno il coraggio di aiutarle, finalmente riconoscendone l’autorevolezza di progettare e fare.
Con il micro-credito (sostenuto da Spagna e altri Paesi) e le tontine, il Coflec sostiene coltivatori, pescatori, cooperative di donne. Una banca esige il 14 per cento di interessi, loro il 5% ma a volta decidono che è giusto… zero. «Alle sorelle europee più che soldi chiediamo di essere accompagnate, un nuovo patto di solidarietà».
Un griot dei nostri giorni
Le donne di Thiaroye ci consigliano il cd di Douda M’Bengue
(david.ndir@hotmail.fr) unico sopravvissuto di un “viaggio della speranza” che ora gira per cantare-raccontare la sua storia, invitando a non partire. E’ un moderno griot, come quei cantanti-poeti che in questa parte d’Africa incarnavano la saggezza comunitaria. Come sempre dovrebbe essere, qui l’antico si rinnova e si mescola al nuovo. Su un muro leggiamo: «We can… Obama».
Un libro e un film
Raccontiamo con piacere a chi ci ospita che in Italia è uscito un bellissimo romanzo, «Undici» di Savina Dolores Massa (ora è anche uno spettacolo teatrale) che racconta – quasi una Spoon River in mare – di un viaggio della speranza finito in tragedia. Uscendo da Thiaroye sur Mer passiamo dalla città-madre, Tharoye che fu protagonista di una storia tragica, raccontata in «Campo Thiaroye» da Sembene Ousmane (scrittore e regista senegalese) e da Thierno Faty Sowi (del Burkina faso). Se amate il cinema – e la storia moderna – recuperatelo dal catalogo Coe (coemilano@coeweb.org).
Un quartiere da 2 milioni
Noi di color bianchiccio abbiamo scherzosamente litigato con il resto della famiglia viaggiante (Alex e Omar) sulla verificabilità di affermazioni tipo: il Senegal è campione mondiale di Scarabeo, di dama, di woure (il bellissimo gioco delle “buche e dei semi” che molti conoscono come warri)… Così quando “il capo-famiglia” Alex annuncia che visiteremo «un quartiere con 2 milioni di abitanti»… poco ci manca che facciamo «bum». Eppure Pikine è davvero un gigantesco quartiere, nato perchè Dakar era … troppo popolata.
Qui la società civile è particolarmente organizzata. Esiste una fantastica radio comunitaria, “Radio Oxy-Jeune” (cercatela su www.seneweb.com) che è un bel gioco di parole fra “ossigeno” e “giovane”: da far invidia alla nostra Radio Popolare con la quale in effetti è gemellata. Ha vinto due volte il premio come miglior radio comunitaria africana. In effetti qui si unisce la tradizionale teranga (fratellanza, accoglienza) del Sen(z)’eg(u)al con radicamento, serietà professionale, fatica; il notiziario è in francese ma poi ci sono flashes in tutte le lingue del Senegal. Usciamo in estasi d’ammirazione.
Alex super-star
«Chiama Senegal» da tempo sostiene a Pikine un progetto di prevenzione della malaria (migliaia di zanzariere e kit informativo), una società sportiva e, con l’adozione scolastica a distanza, centinaia di bambine che altrimenti dovrebbero lasciare la scuola. Quest’ ultimo progetto trova ora un convinto sostegno istituzionale e il nuovo sindaco decide di dare ad Alex Sarr la cittadinanza onoraria e di nominarlo suo speciale consigliere. Il Consiglio Comunale si riunisce e noi… non possiamo mancare. Sorpresa: qui le quote rosa non sono una buffonata. Le donne ci sono, prendono la parola e si avverte che valgono. Una di loro, con ironia, suggerisce che sarebbero ancora di più…. se non dovessero occupare gran parte del loro tempo a rimediare ai guai fatti dagli uomini. Dopo la premiazione di Alex (che diventa rosso… incredibile per un nero) il sindaco chiede anche agli amici italiani di parlare, «sia un uomo che una donna». Fiùùùù. Quando è il nostro turno cerchiamo le parole giuste per dire che abbiamo apprezzato le lodi del sindaco sull’Italia ma dobbiamo, con dolore, correggere un suo errore. «L’Italia in passato è stato un Paese accogliente con i migranti e con i senegalesi in particolare. Ma ora, per colpa della crisi, della paura e della cattiva informazione ma soprattutto di alcune forze politiche che hanno vinto le elezioni va trasformamdosi in un Paese razzista. Noi cercheremo di impedire ai razzisti di continuare le loro schifezze perchè crediamo che non conti il Paese di nascita o il colore della pelle ma solo la forza del cuore, l’impegno per la giustizia sociale».
Gorèe, la porta dell’inferno
Il termine tecnico è triangolazione (intendendo tra Africa-Europa e Americhe). Ma si legge “tratta degli schiavi” e si dovrebbe pronunciare massacro o inferno. Per centinaia di anni l’Occidente si è arricchito depradando l’Africa non solo delle sue ricchezze ma anche delle braccia. I calcoli degli storici più prudenti parlano di 20 milioni di schiavi e 5 milioni di morti durante “il trasporto”. Consiglio la lettura di «La schiavitù spiegata ai nostri figli» (l’editore Epochè lo ha tradotto in italiano nel 2008) di Joseph N’Diaye dove fra l’altro si racconta la storia di Amistad che ispirò il film omonimo di Spielberg. Ma per capire le infamie e la falsa coscienza di un Paese europeo (piccolo ma assai attivo nella tratta) rimando alla trilogia del danese Thorkild Hansen (i primi due volumi sono già stati tradotti da Iperborea). Il simbolo della tratta negriera si chiama Gorée, una piccola isola di fronte a Dakar, che l’Unesco classifica «patrimonio universale dell’umanità».
L’isola degli schiavi oggi
N’Diaye è stato a lungo il conservatore della «Casa degli schiavi» di Gorèe. Nel viaggio di «Chiama il Senegal» è prevista una tappa in questa bell’isola che oggi ha due facce complementari. Da un lato conserva e racconta la memoria dell’infamia negriera (era uno dei principali centri di smistamento degli schiavi), dall’altra lascia grandi spazi a ogni genere di artisti, esaltandone la creatività.
Esci da Goree e torni… a Rosarno
Nel nostro gruppo c’è Daniela che ha scritto sul suo diario di viaggio: «Ritorno dal Senegal e mi accoglie Rosarno: la tv rimanda visi di immigrati sconvolti da ciò che è accaduto e accadrà. Ho appena visto Gorèe, “la porta del non ritorno”. Mi fa sentire male sapere che milioni di africani furono trattati come bestie. Eccomi a casa, e trovo Rosarno. Guardo le foto e c’è quella porta». Dopo aver visto Goree, vorrei dire – anch’io come Daniela – che siamo in tanti a batterci contro le nuove schiavitù ma temo che, almeno in Italia, restiamo relativamente pochi e molto disorganizzati.
Esci da un viaggio e qualcosa cambia
Ma c’è anche lo sguardo nuovo, dolce di Linda che scrive. «Questo popolo, questo nostro modo di viaggiare, responsabile e attento, mi ha regalato piccole e grandi emozioni. Ha spostato il viaggio da una semplice esperienza estetica a un’esperienza concreta, contatto fisico, sorrisi, domande, canzoni – a squarciagola. Dal primo giorno mi sono sentita a mio agio, confusa tra la folla anche se così pallida rispetto agli altri. Guardata con curiosità e orgoglio manifesto che avessi scelto il Senegal».
Arrivederci Afriche, ciao Sen(z)’eg(u)al
Molto ci sarebbe da raccontare del nostro viaggio: dall’entrata magica nel baobab alla biblioteca creata dalla nipote di Leopold Senghor a Djiffer, un luogo bellissimo, con un ingresso a forma di vagina; dai villaggi tradizionali all’orfanatrofio di Pouponiere dove abbiamo incontrato una solidarietà senza frontiere; da Fadioth (un’intera isola fatta di conchiglie) a una tappa nel deserto; dal lago Rosa (qui si concludeva la vecchia corsa Parigi-Dakar) al centro polivalente per disabili di M’Bour; dai villaggi di pescatori al museo Ifan di Dakar. Sarà per un’altra volta. Intanto chi è curioso o vuole vedere con i suoi occhi può navigare su www.chiamasenegal.it oppure telefonare all’associazione (0542 22880, 347 8219675). Ma “Come” ha promesso che presto riparlerà, con maggior profondità, di turismo irresponsabile (e dunque dell’urgenza di viaggiatori responsabili), delle Afriche da conoscere e in particolare del Senegal. Restate sintonizzati.
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fine