Marta Montanini
Fra le consuete proteste in merito ai certificati elettorali non ancora consegnati, la difficoltà di raggiungere i seggi nelle regioni del Nord a causa dell’attivismo di Boko Haram, e il rischio di brogli, la Nigeria si prepara al voto. I candidati approfittano di queste ultime settimane di campagna per raggiungere i loro potenziali elettori via Facebook e Twitter. Tuttavia, è più preoccupazione che passione il sentimento che spinge gli elettori a informarsi sulla sfida fra Goodluck Jonathan, il presidente uscente del Pdp (People’s Democratic Party), e Muhammadu Buhari, un generale in pensione a capo della coalizione di opposizione, l’All Progressives Congress (Apc).
In Nigeria chi non muore si rivede. Buhari, 72 anni, non è certo un volto nuovo. Oltre a essere stato implicato nel colpo di Stato che portò Yakubu Gowon al potere nel lontano 1966 e ministro del Petrolio e delle Risorse naturali sotto il governo militare di Olusegun Obasanjo dal 1977 al 1979, il generale di Katsina, fulani musulmano, del Nord, è già stato presidente dal dicembre 1983 all’agosto 1985, quando ha preso il potere attraverso un colpo di Stato deponendo il presidente eletto Shehu Shagari. Dopo che il suo governo è stato anch’esso interrotto da un atto di forza guidato da Ibrahim Babanguida, Buhari si è sottoposto alla prova delle elezioni democratiche candidandosi alla carica di presidente nel 2003 (sfidando Obasanjo), 2007 (sfidando Umaru Yar’Adua) e 2011 (sfidando per la prima volta Goodluck Jonathan), sempre senza successo. In queste nuove elezioni, però, sembra che una sua nuova sconfitta non sia così scontata.
Se le possibilità di Buhari sono aumentate, lo si deve innanzitutto alla perdita di consensi di Jonathan. In un recente articolo apparso sul quotidiano The Guardian, la giornalista Monica Mark ha definito il presidente in carica un “accidental president”, un “presidente per caso”(1). Sono infatti in molti a ritenere che Jonathan, un professore di zoologia prestato alla politica – ex-governatore dello stato di Bayelsa, nel Delta del Niger, uno dei pochi capi di stato non militari della storia nigeriana – si sia rivelato inadeguato rispetto al compito che lo attendeva. In seguito alla morte del presidente musulmano Umaru Yar’Adua nel 2010, Jonathan, in quanto vice-presidente, e nonostante fosse un cristiano del Sud, è stato nominato capo dello Stato fino al completamento del mandato. Se questa operazione aveva già provocato malumori nella componente musulmana del paese, la sua ulteriore candidatura alla presidenza nelle elezioni del 2011 è sfociata in violente proteste contro ciò che sembrava una violazione del patto non scritto che governa la vita politica nigeriana, secondo il quale presidenti cristiani e musulmani devono alternarsi al potere per un massimo di due mandati (zoning). Nell’occasione, comunque, Jonathan ha riportato una consistente vittoria.
Nei suoi anni di presidenza, Jonathan non si è certo distinto per coraggio, tenacia o prese di posizione significative. Circondato da un entourage troppo spesso conflittuale e spaccato in diverse fazioni, e senza il sostegno vero della componente musulman del suo stesso partito, il presidente ha più volte annunciato svolte storiche che non si sono mai verificate. Le preoccupazioni dei nigeriani – corruzione dilagante, disoccupazione, mancanza di strutture di base, fornitura inadeguata di elettricità – non hanno trovato risposta in politiche davvero incisive e si sono, anzi, acuite (si prevede che il tasso di disoccupazione, attorno al 25%, dovrebbe aumentare di ulteriori due punti nel 2015, mentre il livello di corruzione è rimasto sostanzialmente invariato). La presidenza Jonathan si è dovuta confrontare con la critica situazione economica: la crisi fiscale in atto nel paese, dovuta in gran parte alla caduta del prezzo del greggio, i cui proventi rappresentano il 65% del bilancio statale e il 95% dell’export, e i relativi deflussi di capitale, hanno portato a una svalutazione della valuta nazionale (naira) dell’8%, raggiungendo la soglia minima di 200 naira per un dollaro. Allo stesso tempo quattro anni di governo non sono bastati ad approvare una più che necessaria nuova legge sulle risorse petrolifere.
Il vero fallimento del presidente in carica, tuttavia, è costituito dal confuso immobilismo e dalla mancanza di risolutezza con cui ha reagito alla drammatica sfida posta dall’esclation di violenza di Boko Haram nel Nord del paese. Qualunque sia il supporto di cui il gruppo terroristico possa godere – molti analisti ritengono che l’improvviso attivismo della formazione jihadista sia dovuto ad appoggi di più o meno insospettabili politici federali e locali – è indubbio che al governo sia mancata una strategia chiara. Jonathan ha cercato in tutti i modi di allontanare il problema dalle sue dirette responsabilità: dopo avere tentato, con poco successo, di tenere testa al gruppo terrorista attraverso un’offensiva massiccia che ha avuto ricadute negative anche sulla popolazione civile, il presidente ha accusato l’esercito di essere impreparato ad affrontare il movimento jihadista, approfittando dell’occasione per sostituire potenziali oppositori all’interno della leadership militare. Il fallimento di vari tentativi di mediazione ha contribuito a dare l’immagine di un governo a malapena in grado di penetrare gli stati del Nord. Nemmeno il rapimento di oltre duecento studentesse di Chibok e la relativa ripercussione internazionale hanno provocato un cambiamento di rotta. Dopo avere rassicurato l’opinione pubblica mondiale e gli alleati oltre-oceano, Jonathan ha speso pochissime parole sulla grave situazione nel Nord durante la campagna elettorale. Le sue poco più che simboliche visite nelle città settentrionali sono state accompagnate da proteste ed espressioni di grande dissenso e seguite da gravi attentati: nel più recente, a Gombe, una bomba è esplosa pochi minuti dopo la fine del comizio del presidente, ferendo diciotto persone.
La sicurezza per gli stati del Nord è invece uno degli assi nella manica di Buhari, che in questi mesi si è proposto come l’unico candidato in grado di risolvere davvero la questione. Buhari ha ripetutamente fatto appello all’unità nazionale e ha progressivamente smesso i suoi panni di musulmano osservante per indossare quelli del candidato forte e imparziale. Precedentemente, l’ex-generale aveva espresso la sua totale approvazione per l’estensione della shari’a nelle regioni del Nord e, nel 2012, Boko Haram lo aveva incluso in una lista di persone che il movimento avrebbe accettato come mediatori per un eventuale cesate-il-fuoco. Se i detrattori di Buhari vedono questa vicinanza come sospetta, i suoi sostenitori puntano invece sull’anno e mezzo circa in cui, come capo dello Stato, usò il pugno di ferro contro attentatori alla sicurezza dello stato e personaggi politici. I venti mesi in cui Buhari rimase al potere sono ricordati come uno fra i tanti periodi oscuri della Nigeria: fermi arbitrari, arresti ed esecuzioni formalmente eseguiti in nome della lotta anti-corruzione non risparmiarono nessuno, dagli imprenditori agli intellettuali. Almeno cinquecento persone furono incarcerate. L’illiberale Protection against False Accusations Decree colpì anche il musicista di fama internazionale Fela Kuti a causa delle sue dure critiche al governo e allo Stato di polizia. L’artista fu minacciato, incarcerato e rilasciato solo in seguito a una forte pressione internazionale. Nonostante l’impegno contro corruzione e frode fiscale, il governo di Buhari non perseguì una politica economica coerente, tanto che Babanguida affermò di aver preso il potere per limitare il tracollo della Nigeria.
Nel 2007, quando Buhari si è presentato come candidato contro Yar’Adua, il grande scrittore Wole Soynka ha redatto una sorta di invettiva intitolata “I crimini di Buhari”, allo scopo di ricordare ai cittadini nigeriani gli anni bui che seguirono la presa del potere dell’ex-generale e i rischi che si sarebbero potuti ripetere. Oggi Lola Shoneyin, una giovane scrittrice e giornalista nigeriana, sul quotidiano britannico The Guardian spiega che suo padre, un uomo d’affari perseguitato e incarcerato nell’epoca Buhari, voterà per l’ex-nemico alle prossime elezioni, sacrificando antichi rancori in nome di un forte cambio di rotta(2).
Comunque vada, il vincitore sarà il presidente di pochi: alle ultime elezioni ha votato il 29% degli aventi diritto e, complici il rischio sicurezza e il timore che l’alta tensione sfoci in violenze simili a quelle del 2011, il numero degli astenuti sarà ancora probabilmente molto elevato. Oltre al coraggio di raggiungere le sedi elettorali, dunque, ai nigeriani, che votino per Jonathan o per Buhari, sarà richiesto di avere la memoria corta.
1. Monica Mark, “Goodluck Jonathan: from poor boy to accidental president”, The Guardian, 18 gennaio 2015.
2. Lola Shoneyin, “How my father’s jailer can offer Nigeria a fresh start”, The Guardian, 31 gennaio 2015.
Marta Montanini, dottoranda di ricerca all’Università di Torino e alla Nelson Mandela Metropolitan University of Port Elizabeth
Fonte: ispionline.it