La Repubblica Democratica del Congo e la marcia
La Repubblica Democratica del Congo è un paese in guerra. Da almeno vent’anni, il suo popolo subisce la violenza dei signori della guerra che si combattono per le risorse e il potere e che oggi si sono trasformati in un governo corrotto e autoritario. Risorse fondamentali per lo sviluppo dell’Occidente e per l’Oriente – come il rame, l’oro e il colombo-tantalite (coltan) – escono illegalmente dal paese senza produrre vantaggio né per i lavoratori né per la società civile.
Particolarmente nella parte orientale del paese, la violenza sulle donne e l’arruolamento coatto di bambini nei vari gruppi armati sono ormai diventati pratica comune.
È una crisi che sembra non avere più numeri né faccia: da quando è iniziata la seconda guerra nel Congo (1998-2003) si parla, secondo le stime delle Nazioni Unite, di almeno sei milioni di morti, sei milioni di persone che spariscono senza lasciare traccia né memoria nelle zone remote del conflitto. È un nuovo Olocausto di fronte al quale non si può più stare inerti, non si può non pensare alla storia europea e ai suoi riferimenti alla violenza, ma anche all’umanesimo e all’unità dei popoli per la costruzione della pace.
Di fronte a questo silenzio occorre un cammino, per parlare della Repubblica Democratica del Congo e per dare una risposta alternativa alla violenza e all’oblio. Un cammino, ovvero una vera e propria marcia dal Congo all’Europa.
La marcia nasce su iniziativa di una persona: John Mpaliza, originario della Repubblica Democratica del Congo (RDC), abitante di Reggio Emilia (Italia) da 18 anni ma senza avere la cittadinanza italiana. John partirà dalla sua città, Reggio Emilia, per raggiungere la capitale europea, Bruxelles, percorrendo quasi 1.600 chilometri nell’arco di un mese e mezzo di tempo. La marcia è iniziata come protesta contro la mancanza di indipendenza e di libertà del popolo congolese nello scegliere il suo destino politico ed economico-sociale. Ma vuole essere anche una risposta, una via alternativa contro la violenza da parte di un popolo intero (si veda sotto l’elenco delle adesioni e dei sostenitori).
Contesto storico
Da quando è stato colonizzato alla fine dell’Ottocento, il Congo non ha mai conosciuto la pace. All’inizio era il dominio di un solo uomo, Re Leopoldo II del Belgio: praticamente un’azienda privata per sfruttare le risorse del paese a scopi privati.
Schiavitù e violenza brutale erano all’ordine del giorno.
Dopo la bancarotta del re, che aveva dilapidato in progetti megalomani tutti i profitti accumulati attraverso violenze e soprusi, il paese è passato sotto il dominio del Belgio. Lo sviluppo parziale e localizzato avvenuto in questo periodo soprattutto nelle zone minerarie del paese non ha mai portato benefici al popolo congolese. Al contrario, proprio nel momento in cui tutti i paesi africani lottavano per la libertà, il Congo viveva un regime di apartheid e di sottomissione.
Non solo il Belgio non accompagnò la sua ex colonia verso l’indipendenza, contribuendo alla formazione di amministratori locali che potessero garantire la gestione e dunque un’autonomia economica e politica del paese, ma il suo primo leader libero, Patrice Eméry Lumumba, fu brutalmente assassinato in un complotto internazionale, voluto proprio dal Belgio e dagli Stati Uniti. Alla morte di Lumumba seguì una dittatura violenta e brutale, che ha soffocato il paese per ben trentadue anni.
Oggi, dopo guerre interminabili che hanno spaccato il paese per vent’anni, si sente di nuovo sparare a est del paese. Si allunga così la lista dei morti per fame, carenze sanitarie e insicurezza alimentare (solo per fare un confronto: in Congo muore ogni giorno lo stesso numero di persone che perirono il famoso undici settembre). Oltre a questi morti, sta l’enorme, anche se invisibile, movimento di massa di persone e famiglie: si calcola che oltre un milione di persone sia perennemente in movimento nelle zone orientali del paese, persone costrette a spostarsi in continuazione per scappare dagli scontri e dalla fame, verso l’interno del paese, verso i paesi limitrofi, ma anche più lontano, verso l’Asia, l’Europa, gli Stati Uniti.
Di fronte a tutto questo, ci aspettiamo un minimo di indignazione, un minimo di rispetto verso persone che muoiono ogni giorno nel baratro della violenza. Al contrario, osserviamo un silenzio imbarazzante, un’ipocrisia che fa arrabbiare tanti
congolesi e tante altre persone in ogni parte del mondo.
Innanzitutto siamo arrabbiati con le organizzazioni internazionali, che preferiscono sostenere un regime corrotto e autoritario, invece di denunciare gli imbrogli che impediscono il cammino verso una vera democrazia nella regione dei Grandi Laghi; ma anche con i governi che sostengono la cosiddetta “transizione congolese”, i quali, invece di dar vita a un cammino verso la pacificazione regionale, hanno dato potere ai signori della guerra, che continuano ad accumulare profitti e a imporre un governo arbitrario. Invece di adoperarsi per fermare la violenza, sembra che il coinvolgimento della comunità internazionale abbia aumentato la percentuale di sfruttamento, di coltan insanguinato, il numero degli stupri e delle delusioni che non permettono di costruire un futuro migliore.
Una violenza senza fine
Nella Repubblica Democratica del Congo arruolare bambini è pratica comune sia per i ribelli sia per l’esercito regolare. Ai bambini spetta la pratica di iniziazione alla guerra che consiste nell’attaccare il proprio villaggio dove, per dimostrare di aver tagliato i ponti con la famiglia devono assassinare i propri genitori o fratelli, per non essere uccisi a loro volta. Ancora più tragica è la sorte delle bambine che diventano schiave sessuali dei soldati che le hanno rapite. Questi bambini subiscono traumi fisici e psicologici che difficilmente riescono a rimuovere quando vengono smobilitati. Ugualmente difficile è il loro reinserimento nella società che, sempre più spesso, li emargina per gli atti commessi condannandoli così alla sorte dei bambini di strada.
Nelle zone di conflitto non meno allarmante è la condizione delle donne, che sono spesso vittime di violenze di natura sessuale, utilizzate come arma da guerra tanto dagli appartenenti alle milizie quanto dalle forze di sicurezza statali, violenze che le stesse vittime tacciono per evitare la disapprovazione sociale. Molte di loro sono stuprate in modo continuo, fino a quando i ribelli non lasciano la zona di conflitto. Altre subiscono invece violenza di fronte agli occhi dei propri mariti, una doppia umiliazione al fine di accrescere il terrore. Altre ancora sono deportate. Ragazzine o mogli sono costrette a scegliere se essere violentate oppure uccise. E chi subisce lo stupro viene abbandonato dalla famiglia per la vergogna, ritrovandosi così relegato ai margini della società, con gravi traumi fisici e psichici.
Obiettivi
La marcia congolese è un movimento che parte dal basso. È un movimento che coinvolge giovani e anziani, associazioni congolesi ed europee, artisti e intellettuali che hanno deciso di camminare insieme per portare il loro messaggio di rabbia e di pace.
È la marcia di un intero popolo, una comunità che attraversa sette paesi europei per parlare alla gente comune e alle istituzioni europee e internazionali. La marcia è fatta di tanti incontri e scambi personali, ma soprattutto di una speranza: da soli non riusciremo a costruire la pace, è necessario un cammino condiviso che ci permetta di dare uno spazio e dei luoghi a questo massacro dimenticato, di dare giustizia a un popolo che merita di essere riconosciuto nella memoria e nella sofferenza di altri popoli, e che soprattutto vuole collaborare con delle proposte concrete.
Pertanto, concretamente, ecco ciò che chiediamo:
- la realizzazione di una road map per la pace nella Repubblica Democratica del Congo e nella zona dei Grandi Laghi. Tale road map deve:
1. affrontare prima di tutto la situazione all’interno di ciascun paese interessato con l’obiettivo di portare alla legittimità dei governi ed all’alternanza democratica;
2. portare ad un percorso di pace tra i vari stati della zona, percorso che deve portare alla riconciliazione tra i vari popoli;
- una risoluzione del problema dello sfruttamento violento (illegale e non) di minerali come coltan, rame e oro attraverso, da un lato, iniziative di trasparenza e tracciabilità già esistenti (per esempio ITRI, GeSI, PACT) e, dall’altro, l’incentivazione di uno sfruttamento equo e durevole di queste risorse. Oltre alle compagnie minerarie e ai governi, questo processo dovrebbe essere diretto soprattutto verso la protezione dei diritti dei lavoratori, da garantire attraverso una rappresentanza istituzionale e autonoma, al momento inesistente nel paese;
- una maggior attenzione verso il problema dei rifugiati e delle persone sfollate, attraverso iniziative di ricollocazione nei luoghi di origine dove possono riprendere la loro vita con il sostegno e la collaborazione delle organizzazioni per lo sviluppo;
- una maggiore lotta contro l’impunità delle organizzazioni armate(sia l’esercito che le milizie, sia congolesi che straniere) che sistematicamente calpestano i diritti umani e civili. A questo fine, si rende necessaria, in primis, una giustizia maggiore verso le vittime di guerra, una giustizia che non venga limitata da nessun ragionamento politico opportunistico. In secundis, è necessaria una ristrutturazione delle regole d’ingaggio che attualmente disciplinano l’intervento della Nazione Unite (MONUSCO), ma che spesso si vedono affiancate da un esercito che, secondo loro stesse, è diventato il maggior ostacolo nella costruzione della pace. A questo scopo, la protezione dei civili deve rimanere il primo obiettivo di qualsiasi intervento umanitario o di costruzione della pace.Solo attraverso la realizzazione di questo piano regionale verso la democrazia e l’autentica partecipazione, si può sperare di risolvere la crisi storica dei Grandi Laghi.
Non c’è futuro senza perdono, non c’è perdono senza giustizia.
Il Comitato per la Marcia dal Congo RD all’Europa Per informazioni, contattare: John Mpaliza (email: john.mpaliza@gmail.com – cell: +39 320 4309765) Micaela Casalboni (email: micaela@itcteatro.it – cell: +39 339 5460892) www.peacewalkingman.org
Itinerario
La marcia partirà da Reggio Emilia (Italia) e attraverserà sette paesi, per un totale di quasi 1.600 chilometri, passando per molti luoghi significativi della cittadinanza europea e della storia europea e congolese: Milano, Torino, poi lungo la Via Francigena verso Chambéry (Francia), Ginevra (Svizzera, sede dell’UNHCR), Freiburg (Germania), Strasburgo (Francia, sede del Parlamento Europeo), Lussemburgo (Lussemburgo), Maastricht (Olanda, luogo dove fu firmato il famoso trattato omonimo), Bruxelles (Belgio, sede di numerose istituzioni europee).
Istituzioni, organizzazioni, artisti e intellettuali che hanno già aderito a sostegno della marcia
- Senato della Repubblica Italiana (patrocinio)
- Dynamique de la Diaspora Congolaise en Emilia-Romagna Teatro dell’Argine-ITC Teatro di San Lazzaro
- European Alternatives
- Transeuropa Festival
- Human Rights Nights Film Festival
- Dipartimento di Geografia Politica dell’Università di Zurigo
- Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Bologna
- Provincia di Reggio Emilia (patrocinio)
- Provincia di Roma (patrocinio)
- Provincia di Bologna (patrocinio)
- Provincia di Pisa (patrocinio)
- Comune di Reggio Emilia (patrocinio)
- Comune di Albinea (RE, patrocinio)
- Comune di La Spezia (patrocinio)
- Comitato Azione RD Congo
- Archivio Nazionale Diaristico di Pieve Santo Stefano
- Centre Bruxellois d’Action Interculturelle (Belgio)
- Fondazione Strefa WolnoSłowa di Varsavia (Polonia)
- Kuumba Casa Fiamminga Africana (Bruxelles, Belgio)
- ARCI Bologna
- ARCI Milano
- Théâtre Am Stram Gram (Ginevra, Svizzera)
- Théâtre de Poche (Bruxelles, Belgio)
- Marco Baliani (regista, autore e attore)
- Ascanio Celestini (autore e attore)
- Fanny & Alexander (artisti)
- Alessandra Belledi (direttrice Teatro delle Briciole di Parma)
- Letizia Quintavalla (regista)
- Matéi Visniec (drammaturgo)
- Elisabetta Pozzi (attrice)
- Associazione Olinda/Ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini di Milano
- Gerardo Guccini (Dipartimento di Musica e Spettacolo Università di Bologna) Massimo Marino (giornalista)
- Marianella Sclavi (antropologa)
- Roberto Beneduce (etnopsichiatra)
- Paolo Jedlowski (sociologo)
- Ivo Quaranta (antropologo)
Naturalmente sarà benvenuto chiunque – associazione, ente, istituzione o privato cittadino – voglia aggiungersi a questo elenco.