Il Mali continua ad essere teatro di sanguinosi e violenti scontri che sembrano non trovare una via d’uscita. L’impasse in cui il paese è caduto negli ultimi mesi peggiora di giorno in giorno, accentuando la frattura che divide il territorio in due parti nettamente distinte.
La miccia che ha fatto scoppiare la polveriera è stata accesa il 17 gennaio, quando i ribelli tuareg del Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad (Mnla) sono insorti contro l’esercito ufficiale nella parte nord del paese. Le truppe governative, inesperte e mal equipaggiate, sono state costrette a lasciare il campo di battaglia permettendo ai ribelli di occupare la base militare di Amachac, nel nord del paese.
A questo episodio sono seguite settimane di proteste da parte di una frangia dell’esercito che ha accusato il governo di non aver saputo gestire la situazione. Il 22 marzo le manifestazioni sono sfociate in un colpo di stato a Bamako, la capitale del Mali. Un gruppo di soldati ribelli guidato da Amadou Sanogo ha deposto il presidente in carica Amadou Toumano Touré, occupando il palazzo presidenziale e la sede della televisione di stato. La CEDEAO (Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale) è intervenuta immediatamente instaurando un dialogo con i golpisti terminato il 12 aprile, data in cui è stato stipulato un accordo che prevede un governo di transizione della durata di un anno guidato da Dioncounda Traoré.
Il caos che ha accompagnato le difficili trattative tra i militari insorti e la CEDEAO ha lasciato che la parte nord del paese cadesse definitivamente nelle mani dei gruppi ribelli. In particolare, i tuareg del Mnla e i jihadisti di Ansar Dine si sono rivelati i due movimenti più influenti.
Il primo, formatosi nell’ottobre del 2011, ha come obiettivo l’indipendenza del territorio nord del Mali, chiamato anche Azawad, che comprende le regioni di Gao, Kidal e Timbouctou. La nascita del Mnla è strettamente legata alla caduta del regime di Gheddafi. Molti tra i suoi mercenari erano dei touareg che, dopo la morte del dittatore, sono rientrati nel Mali portando con sé migliaia di armi sottratte all’arsenale libico.
Il gruppo di Ansar Dine invece, è un movimento islamico radicale legato ad Al-Qaeda. Non avendo mire secessioniste, ha come scopo principale quello di imporre la legge islamica (charia) in tutta la zona del Sahel.
Nonostante le forti divergenze, il 26 maggio le due fazioni hanno stretto un accordo proclamando la nascita di uno stato islamico indipendente. Come era facilmente prevedibile, il patto non è durato più di 48 ore. Secondo quanto riportato dai portavoce dei rispettivi movimenti, il pomo della discordia che avrebbe impedito l’unione sarebbe stata proprio l’applicazione della charia. Il Mnla è un movimento di impostazione laica, libero da ogni influenza religiosa. Sottostare alla legge islamica avrebbe significato per gli indipendentisti un ulteriore asservimento, perlopiù di natura religiosa.
I dissensi tra i due principali movimenti ribelli hanno portato ad una situazione di forte tensione in tutta la zona nord del paese. Altri gruppi islamici come l’Aqmi (Al Qaeda nel Maghreb Islamico) e e il Mujao (Movimento per l’unicità e la jihad nell’Africa dell’ovest) si sarebbero avvicinati ad Ansar Dine, formando delle pericolose coalizioni legate a doppio filo all’organizzazione terroristica di Al Qaeda. Forti di una netta superiorità numerica e di un ricco arsenale, questi estremisti hanno cominciato ad imporre con la forza la charia alla popolazione locale, dando vita ad episodi di violenza inaudita.
I rapporti tra i separatisti e i fondamentalisti islamici sono degenerati il 27 giugno, quando la città di Gao è stata teatro di un violento scontro tra i militanti del Mujao e quelli del Mnla che ha provocato oltre una ventina di morti. Il conflitto si è protratto per due giorni, fino a quando i tuareg non si sono ritirati verso il nord lasciando l’intera zona nelle mani dei loro avversari. Rimasti padroni incontrastati del territorio, i gruppi islamisti hanno scatenato la loro furia distruggendo a Timbuctù sette mausolei dedicati a dei santi musulmani. Secondo gli uomini di Ansar Dine, il culto dei santi sarebbe una pratica non conforme alla religione dell’islam e per questo dovrebbero essere eliminati i luoghi di culto utilizzati per venerare singole personalità. Un atto di violenza che dimostra come il territorio dell’Azawad sia divenuto ormai un far west in mano ad occupanti che agiscono in totale libertà.
Il pericolo che il nord del Mali divenga una roccaforte jihadista diventa ogni giorno più concreto. La comunità internazionale sembra non riuscire a trovare una soluzione che ponga fine a questa situazione di stallo. La CEDEAO, insieme all’Unione Africana (UA), è orientata verso un intervento di tipo militare, con l’invio di truppe armate nei territori occupati. L’Onu però non è d’accordo con questa ipotesi, preferendo la via del dialogo. Per ben due volte le Nazioni Unite hanno respinto la proposta delle due organizzazioni africane che richiedevano l’invio di un contingente armato, ritenendola imprecisa e troppo vaga. Questa prudenza da parte del Consiglio di sicurezza, forse eccessiva vista la gravità del momento, è data dall’instabilità politica del governo maliano. La situazione a Bamako rimane precaria, con il presidente ad interim Traoré scappato a Parigi in seguito ad un’aggressione e il primo ministro Cheick Mobido Diarra che non sembra essere all’altezza del suo ruolo. La debolezza delle istituzioni non convince la comunità internazionale, in special modo gli Stati Uniti che si sono mostrati fin da subito contrari all’invio di truppe nel nord del Mali. Johnnie Carson, Segretario di Stato USA per gli Affari Africani, ha dichiarato che “bisogna stabilizzare il sud del paese prima di avventurarsi nel nord”. Fin quando il Mali non avrà un governo stabile, gli Stati Uniti non appoggeranno nessun tipo di intervento armato per liberare la parte settentrionale.
Per far fronte alla crisi politica nazionale, sabato 8 luglio si è tenuto un summit a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, tra i capi di stato di sei paesi membri della CEDEAO ( Niger, Nigeria, Benin, Togo, Burkina Faso e Costa d’Avorio). L’assenza del presidente Traorè e del ministro Diarra ha sollevato molte polemiche, rincarando la dose di critiche nei confronti del governo di transizione maliano. Presieduta dal presidente del Burkina Faso Blaise Compaoré, la riunione ha portato ad una decisione unanime approvata da tutti i partecipanti: il Mali dovrà formare un “governo di unione nazionale” entro il 31 luglio per poter essere in grado di risolvere la crisi del nord. Un provvedimento che suona come un ultimatum, viste le sanzioni che saranno adottate se non verrà rispettato il termine di scadenza. In caso di mancato raggiungimento dell’obiettivo, la “CEDEAO non riconoscerà più il governo del Mali e il paese sarà sospeso da tutte le organizzazioni regionali”.
Questa decisione, così dura e categorica, sembra non tenere conto delle difficoltà oggettive che ostacolano un possibile processo di assestamento del paese. Riuscire ad appianare le divergenze che dividono lo scenario politico in meno di un mese sembra un’impresa a dir poco ardua. I golpisti capitanati da Amadou Sanogo hanno ancora un peso rilevante nello scenario istituzionale del paese, grazie anche al forte consenso di cui godono fra la popolazione locale. Il presidente Traorè si trova ancora a Parigi e per il momento sembra non avere nessuna intenzione di rientrare a Bamako. La CEDEAO è ormai decisa ad intervenire nel territorio dell’Azawad e per fare ciò deve avere terreno libero. Se il Mali riuscisse a rispettare la scadenza ci sarebbe un invio di truppe con l’appoggio dell’Onu; se invece il paese non dovesse trovare una soluzione, il governo in carica perderebbe il suo status e, di conseguenza, la Comunità degli stati occidentali potrebbe arrogarsi il diritto di un intervento armato. In entrambi i casi la CEDEAO potrebbe intercedere direttamente, richiedendo l’appoggio delle Nazioni Unite che per il momento rimangono in disparte a guardare.
Danilo Ceccarelli