La stagione delle piogge stenta ad arrivare. E così la vita scorre rallentata da questo pesante caldo umido che non trova il modo di scaricarsi. La città è sterminata, quando ci si trova chiusi tra la jungla di palazzi e case non si pensa che Dakar si affacci sul mare. Ma poi, quando si arriva su una delle spiagge che circondano la grande capitale in espansione, la vista si allarga sull’Oceano per tornare subito dopo a riva e perdersi tra le miriadi di piroghe spiaggiate e piccoli baracchini improvvisati che offrono pesci grigliati e bibite più o meno fresche per chi vuole lasciarsi alle spalle il caos d’asfalto e polvere.
Durante la settimana le strade sono iper affollate fino a tarda notte, in un susseguirsi di banchetti, donne dai vestiti sgargianti, uomini con le lunghe tuniche musulmane o dai vestiti più semplici, bambini di tutte le età e altezze, capre e caproni, galline, macchine, taxi, car rapid, ndjaga ndjai che sfrecciano col loro carico strabordante di persone insinuandosi indisciplinatamente in ogni spazio libero della strada, strombazzando prepotentemente ai pedoni che osano invadere il loro territorio.
Il fine settimana però lo scenario cambia e la città rimane svuotata dall’energia che di solito la anima, restando ripiegata su se stessa in attesa che le persone rientrino dai villaggi d’origine. E così vedi Dakar vuota e silenziosa svilupparsi in tutta la sua maestosità, nel suo incredibile accostamento di edifici lussuosi e imponenti accanto a baraccopoli arrangiate all’ombra del potere economico.
Gli slum sono una realtà a parte della città: tutti sanno che ci sono, ma è come se non ci fossero. E lo stesso vale per i loro abitanti, che nonostante si occupino di alcune delle attività base della città – dalla lavorazione del miglio al lavaggio dei panni di chi si può permettere di non lavarseli da sé – sono trattati come dei fantasmi, nell’incuranza più assoluta di tutti, in primis dei politici ma anche di molti dei loro “vicini di casa”.
Quest’anno il Senegal ha votato e messo fine alla presidenza durata ben 12 anni di Abdoulaye Wade, che ha cercato di far di tutto per riuscire a essere rieletto per la terza volta, nonostante la costituzione senegalese permetta di ricoprire al massimo due mandati, scatenando con questo suo atteggiamento poco democratico diversi scontri e proteste popolari. L’entusiasmo e l’allegria che hanno invaso il Paese alla chiusura delle urne col verdetto della vittoria dell’oppositore dell’ex presidente, Macky Sall, sembra che si siano già parecchio affievolite. All’inizio del mese ci sono state le elezioni amministrative, ma, a sottolineare il graduale spegnersi dell’entusiasmo, la partecipazione popolare non è stata così forte
come per le presidenziali. Anzi, la vittoria del partito legato al nuovo presidente, seppur conferendogli la maggioranza dei seggi, è avvenuta grazie a una partecipazione del 35% dei votanti, davvero molto bassa per proclamare con soddisfazione la propria vittoria ai quattro venti. Speriamo che la fiamma della speranza di un cambiamento vero e non solo sbandierato non sia destinata a soffocare completamente, nel vedere ancora una volta gli uomini di Stato concentrarsi più sull’accentramento del potere nelle proprie mani piuttosto che sui problemi che affliggono la loro terra.
Sono approdata nel Paese simbolo della coalizione degli Stati dell’Africa Occidentale perché degli amici hanno montato un asilo, dove si cerca di far crescere i bambini poverissimi di una delle tante baraccopoli del quartiere di Medina con i bambini più ricchi di altre zone della città, ma soprattutto di quello adiacente di Gibraltar.
L’asilo è coloratissimo, i bambini cantano, colorano, disegnano, imparano i primi rudimenti della scrittura seguendo ammirati i propri maestri. Certo, ogni tanto si distraggono – soprattutto quando entra in classe qualcuno di nuovo – e scatta un caos eccitato e rumorosissimo. Ti si lanciano tutti addosso, tutti vogliono quanto meno darti la mano, i più arditi ti scalano in due secondi e poi cercano di non lasciare più la loro posizione di prestigio. Sono proprio belli e vitali. Dopo il pranzo servito in grossi piattoni posti al centro di un tappeto – la maniera tipica senegalese di portare il cibo “in tavola” – da cui tutti, ognuno con la propria forchetta o cucchiaio, si servono, c’è l’ora del pisolino, anche se aggirandosi per l’asilo cercando di non far rumore si possono sentire i bimbi che invece di chiudere gli occhi e riposarsi cantano con ancora più energie di prima. Verso le quattro e mezzo i genitori li vengono a recuperare, anche se alcuni restano fin
oltre alle otto di sera, aspettando che la mamma o il papà siano riusciti a liberarsi dai mille lavoretti con cui cercano di racimolare qualche soldo.
Anche sulle maestre e i due maestri ci sarebbe tanto da dire, ognuno con la sua storia e la sua grinta, persone per cui fare un lavoro in cui credono e in cui si sentono apprezzati ha cambiato la vita. Sono sempre sorridenti, e anche se ti fai capire più con i gesti che con le parole, si sforzano di dare un senso ai tuoi tentativi di comunicazione. E poi si vede che sono felici di sapere che quando sarai andato via, dall’altra parte del mondo, a milioni di chilometri di distanza, in luoghi che a volte non riescono neanche a immaginare, ci sarà qualcuno che ogni tanto pensa con affetto e piacere a loro.
E gli basta. Non ti chiedono niente – a parte le mille domande per informarsi sulla salute tua, della tua famiglia e dei tuoi cari, se hai dormito e mangiato bene, se ti piace il Senegal – sono felici di sapere che hai intrapreso un lungo viaggio solo per conoscerli e per conoscere il lavoro che cercano di portare avanti.
Il direttore dell’asilo è un ragazzo super sorridente, con la fessura tra i denti e le fossette molto marcate – cosa che qui fa impazzire le donne -, è una persona molto semplice e davvero disponibile, è sempre pronto a interpretare i tuoi balbettii in francese e a darti una mano. E poi ti accompagna ovunque, e si accerta con tatto e delicatezza che tutto stia andando bene. Più che un direttore è un amico che ti racconta tutto quello che vuoi sapere e che cerca di condividere la tua esperienza nel suo Paese e nel suo asilo. E lo fa ridendo e scherzando, a volte anche prendendoti in giro perché magari ogni tanto ti scappa una domanda un po’ più stupida e curiosa delle altre.
Ora aspetto solo la pioggia e di vedere cos’altro questo caldo Paese riuscirà ancora a regalarmi.
testo e foto di Flavia Zecchin