Daniele Barbieri (giornalista, fra l’altro a Carta) e Hamid Barole Abdu (il suo ultimo libro è “Seppellite la mia pelle in Africa”) hanno inventato una piccola performance, alternando battute a discorsi seri, fiction a storie vissute. Su temi caldi come razzismo, identità, migrazioni, culture, sicurezza… tocca tramutarsi in palombari per meglio andare negli abissi dell’inconscio?
Così è nata “Le scimmie verdi”, circa 45 minuti dove un tal Daniele e un certo Hamid si scambiano gli abiti – dunque le identità – per tentare di capire se grattare la scapola di Naomi Campbell sia possibile, se ballare per strada sia pericoloso, se i neri vendano rose e i cinesi mangino i morti, se vi sia un colore giusto per la pelle, se le prostitute si riconoscano dalle dita dei piedi e… cosa diavolo siano le scimmie verdi.
Da aprile ’07 “Le scimmie verdi” hanno superato le 100 repliche: fra l’altro a Carpi, al master dell’immigrazione a Padova, al centro sociale Zeta-lab di Palermo, 2 volte a Parma, al convegno di “Chiama l’Africa” ad Ancona, 2 volte in provincia di Rovigo, a Modena 3 volte, di nuovo a Padova in una biblioteca e in 2 scuole medie, a Mandas, L’Aquila, Roma, Pescara (in un liceo e in un pub), Ravenna, Imola, ancora Roma (master immigrazione), sotto il portico di una vecchia casa ad Asuni, in piazza ad Avellino, Napoli e Cecina, a Fidenza, Pavullo, Calcio, Senigallia, Fano, Viterbo (al convegno del Cem), Spilimberto, Reggio Emilia, Prato, Valdobbiadene, Zugliano, nuovamente nel modenese, Prato, Sassuolo, Cagliari, in provincia di Milano, al direttivo della Cgil di Ravenna, a Cervia, a Castiglion del Lago, Bologna, ancora Padova con i Beati costruttori di pace, due volte a Forlì, in un corso di formazione a Chieti, Pistoia, Empoli, Cremona, Milano (all’African day), in un giardinetto di Verona, eccetera
Qui sotto una recensione (di Daniela Pandolfi da www.dramma.it)
“LE SCIMMIE VERDI” di e con Daniele Barbieri e Hamid Barole Abdu, Sala 315 degli Istituti di Psicologia, Policlinico Gemelli di Roma, 20 giugno. Letture fuori scena: Sarina Aletta.
Uno possiede la forza d’urto scanzonata e provocatoria dell’intellettuale sopra le righe e una struttura fisica solida lo sostiene: è un bianco, fa il giornalista, si chiama Daniele.
L’altro è riservato e vivace, lievemente scettico, con il potere di strappare un sorriso quasi subito: il suo misurato sussiego sembra difenderlo da un mondo ostile, ma è in contrasto con la grazia involontaria dei modi e dell’aspetto. Non è bianco, scrive libri e poesie, si chiama Hamid.
Attenti a questi due: un incontro di opposti così fulminante non poteva essere più prolifico o puntuale. Che due soggetti simili, con il pallino dei diritti umani, si mettessero in gioco insieme, inventando una performance contro il razzismo, poteva anche essere un fatto scontato, ma la forza e l’originalità del loro disegno, guardandoli “agire” sbaraglia ogni previsione.
Hanno messo al mondo una creatura nuova, composita e migrante, utopica e fantascientifica, figlia di molti generi e luoghi: sarebbe un reading se all’improvviso non diventasse invece vita vera, scissione di personalità per interposta persona, per affinità telepatica e pulsione attoriale. I due mettono in scena lo scambio di identità fra un italiano e un extracomunitario (presumibilmente radicato nelle loro vite ma con molta fantasia) che confonde i giochi, smantella i confini e trascina lo spettatore in una vertigine di controsensi, finendo per metterlo implacabilmente alle strette contro i suoi pregiudizi.
Ciò accade in modo sottile, attraverso un dispositivo testuale in grado di produrre straniamento: un incipit modesto e di maniera, che inquieta lo spettatore, perché propone “l’uomo qualsiasi” con modi teatrali qualsiasi, mentre in effetti sta mettendo in collisione la struttura con lo stile: quel pulpito così essenziale tradisce le vibrazioni sotterranee di un’altra frequenza etica e intellettuale.
Si sente che si ha a che fare con soggetti forti e pensieri forti: non attori, certo, ma dilettanti nemmeno: e non è il mestiere che legittima questi signori nei ruoli che si sono dati, ma la giustezza interiore, quella dei loro vissuti e delle loro idee.
Utopia in campo? Possibile? Davvero questi due si provano a captare dall’ interno i segnali delle nostre difficili convivenze per smontarli e rimontarli verso un quadro rappresentativo nuovo? Certo Barbieri è un esperto di fantascienza (di qui quel titolo e l’inserto “La sentinella” tratto da Fredric Brown) ma che arrivasse a praticarla davvero questa progettazione fantasiosa di un mondo possibile è di una coerenza inusitata. Anche se, ripensandoci, si tratta di una svolta annunciata in quarta di copertina del libro suo e di Riccardo Mancini (“Di futuri ce n’è tanti”) con una frase di M. Piercy: “ Per costruire un futuro bisogna prima sognarlo”. O anche da quel Sartre in epigrafe a pag. 69: “Io sono il mio futuro nella continua prospettiva della possibilità di non esserlo”. O ancora e soprattutto da un proposito minimale: “cerchiamo viottoli, non autostrade…”.