Bengasi, 12 marzo 2011. Da venti giorni la Cirenaica è libera. E questo è il quarto giorno che le ragazze di Benghazi scendono in piazza per chiedere alla comunità internazionale di imporre una No Fly Zone e fermare il gioco al massacro del colonnello Gheddafi.
Ghalia in piazza non è da sola. È venuta con la sorella più grande, Ghada, laureanda in architettura all’università di Benghazi, e con la cugina Fatma, disoccupata dai tempi della laurea in geografia nel 2002.
“Se tutti i ragazzi muoiono, andiamo noi al fronte!” dice eccitata mentre mi scrive su un foglio del taccuino il suo indirizzo su facebook. Siamo davanti al tribunale di Benghazi, dove ogni giorno si riunisce il consiglio transitorio degli insorti. Il corteo di circa duemila ragazze si è fermato qui. Dalla finestra affacciata sulla piazza, si alternano gli interventi al microfono. Un rappresentante dell’assemblea transitoria annuncia l’appoggio ufficiale della Lega Araba alla no fly zone. La piazza esplode in un grido di gioia. Dalla comunità internazionale non vogliono altro. Niente guerra umanitaria, né invasione del paese via terra. Soltanto un appoggio aereo. Per il resto sono tutti pronti a combattere. La folla ripete lo slogan: “Namutu shuhada’ al-rijal wa al-nisa’”. Ovvero: moriremo martiri, uomini e donne.
Per capire a cosa si riferiscono basta dare un occhio alla facciata del tribunale. Sono centinaia di fotografie. Alcune incorniciate, altre stampate alla meglio. Volti di uomini, donne e bambini. Sono i volti dei martiri.
“Non vi dimenticheremo finché non avremo vinto”, recitano come un mantra i manifesti appesi al muro. Più in alto, sulla stessa parete campeggiano due bandiere: quella libica e quella francese. La scelta di Sarkozy di appoggiare apertamente i ribelli, è stata molto apprezzata dalla piazza, che adesso chiede agli altri Stati di fare lo stesso. E di premere per la no fly zone. “Non si può perdere tempo, tra una settimana potrebbe essere troppo tardi” dice Ghalia.
La sua famiglia con il regime ha già parecchi conti in sospeso. Lei era ancora una bambina quando nel 1996 suo cugino Fathi Elarbi morì insieme ai mille detenuti massacrati dalla polizia nel carcere di Abu Selim. E sette mesi fa il fratello Ahmed è stato arrestato a Tripoli con altri quattro ragazzi, per reati di opinione.
“Prima non potevamo parlare, venivano a casa e ti portavano nelle carceri sotterranee oppure ti impiccavano!”. Ma adesso è finita. Benghazi non ha più paura. I ragazzi sono partiti al fronte. E le ragazze presidiano la piazza. Perché come dice un cartello in piazza, scritto in inglese: “Chi rende impossibile una rivoluzione pacifica, rende necessaria una rivoluzione violenta”.
Loro a Ras Lanuf hanno due uomini. Lo zio Salem, che fa avanti e indietro ogni giorno tra Benghazi e il fronte, che da qui dista circa 350 km. E il fratello Mohamed, che non torna a casa da ormai quattro giorni. È poco più che ventenne ed è la prima volta che abbraccia un fucile, ma ci mette tutta la passione di un partigiano. Con Ghalia si sentono tutti i giorni per telefono.
Fino a quando c’era internet, lei postava su facebook le notizie che lui le dava dal fronte. Ma ormai l’unica connessione rimasta a Benghazi è quella dell’albergo Nuran per i giornalisti e quella della sala stampa allestita dai ragazzi del movimento del 17 febbraio nei locali di un vecchio commissariato di polizia dato alle fiamme durante la rivolta e così restituito alla collettività dopo una veloce riverniciata di bianco sulle pareti affumicate.
È qui che ci arriva in serata la notizia della morte dell’inviato di Al Jazeera, il cameraman Ali Hassan al Jaber, originario del Qatar. L’hanno ucciso in un agguato a una quindicina di chilometri da Benghazi. Un omicidio che ha destato l’indignazione generale.
Poche ore dopo la conferma della notizia, sul tetto del palazzo del tribunale di Benghazi è spuntata una bandiera del Qatar, con su scritto “Grazie Qatar”, che vuol dire “Grazie Al Jazeera”, la televisione qatarese che più di ogni altro ha seguito e incoraggiato le rivolte prima in Tunisia e Egitto e adesso in Libia e Yemen.
La notizia ha seminato il panico anche tra gli inviati dei giornalisti. Già ieri sera, temendo un bombardamento aereo di Benghazi, alcune testate hanno ritirato i loro corrispondenti. Mentre molti altri stanno organizzando il rientro per colpa del Giappone. I riflettori ormai sono tutti su Tokyo. Sarà difficile spiegarlo a Ghalia e alle ragazze di Benghazi, ma il terremoto rischia di aiutare più di ogni altra cosa Gheddafi a spegnere i riflettori sul bagno di sangue che prepara contro i ragazzi della rivoluzione.
Fonte: Fortresseurope