Alla vigilia del cinquantenario della decolonizzazione parla la sorella del presidente del Burkina Faso ucciso nel 1987
di Tiziana Barillà
Nelle librerie della capitale Ouagadougou si trovano ancora i testi di Sankara, i suoi discorsi, le biografie scritte dopo la morte. «Al ventennale della sua morte le manifestazioni sono state partecipatissime, soprattutto da giovani», ci dice la sorella di Thomas, Blandine Sankara. «Ma finora non c’è mai stata nessuna riconciliazione, nessuna verità e nessuna trasparenza».
L’Onu aveva chiesto al Burkina di aprire una Commissione di inchiesta su tre punti: sapere dove è stato ucciso e seppellito Sankara, rettificare il certificato di morte naturale e stabilire un indennizzo per la moglie e i due figli. Solo il secondo punto è stato affrontato, eppure la Commissione Onu si è ritenuta soddisfatta ed ha archiviato tutto.
D. Diverse testimonianze implicano nella morte di Sankara l’attuale capo di Stato Blaise Compaoré, con la complicità della Francia, della Cia e di personalità africane come Prince Johnson, senatore in Liberia e Houphouët Boigny, ex presidente della Costa d’Avorio. Vi siete sentiti traditi?
R. Per noi della famiglia è stato difficile accettare la situazione. Blaise era un fratello, un figlio per i miei genitori. Ricordo che quando arrivarono a casa per dire che c’era stato il colpo di Stato, ci dissero che Thomas era stato arrestato e mia madre si preoccupò anche per Blaise. Solo il giorno dopo scoprimmo che in realtà era stato ucciso. Lo abbiamo appreso da Radio France internacional, insieme alla notizia che Blaise aveva preso il suo posto. È stata per noi la cosa più atroce e inammissibile, una doppia perdita. In seguito, Blaise ha tentato dei riavvicinamenti con la nostra famiglia, ma sempre attraverso offerte di denaro che i miei genitori hanno ogni volta rimandato indietro. Non era una questione di soldi. Dopo l’assassinio hanno cominciato a perquisire tutte le case di amici e parenti. C’era la storia di una valigia con dei soldi che era sparita dalla Presidenza e i militari sono venuti a frugarci in casa per cercarla.
I miei fratelli sono stati arrestati. Uno di loro, Pascal, è in esilio negli Stati Uniti: è stato preso, bendato e appeso, e ne vive ancora le conseguenze.
Ci facevano piazza pulita intorno, se qualcuno veniva a casa nostra in automobile, prendevano il numero di targa e il giorno dopo veniva convocato dalla Polizia. Persino la Chiesa cattolica ci ha abbandonato, nonostante mio padre fosse il presidente della comunità cristiana.
Dopo l’assassinio la paura era tanto forte che neanche i preti e le suore venivano più. Tutti i nostri amici, ancora oggi, chi più chi meno, subiscono le conseguenze dell’esserci vicini. «Si festeggia l’indipendenza, ma siamo ancora schiavi».
D. La Rivoluzione burkinabé è diventata però un modello.
R. La Rivoluzione ci ha lasciato delle conquiste, oggi bisogna chiedersi cosa ce ne facciamo. Il Burkina è stato una sorta di laboratorio, con tutti i tipi di regime che ha avuto. Durante la Rivoluzione la partecipazione popolare era un punto prioritario: ogni burkinabé, anche nei villaggi più piccoli, sentiva la gestione della cosa pubblica come un qualcosa di importante per lui. Abbiamo visto che tante cose erano possibili, compreso che un’élite al potere potesse agire per il bene pubblico.
D. Nel luglio 1987, appena tre mesi prima dell’uccisione di Sankara, si delineava però già la possibilità di un golpe. La crisi interna al processo della Rivoluzione era ormai così letale?
R. È vero che nell’ultimo periodo c’erano due vertenze: quella del sindacato degli insegnanti e quella della salute. Thomas nell’ultimo anno aveva cominciato a fare autocritica per analizzare gli errori della Rivoluzione, perché sapeva che non erano state fatte solo cose positive.
Hanno addirittura scritto che era diventato pazzo, ma era una messa in scena dei nemici suoi e della Rivoluzione. Aveva riconosciuto, durante una conferenza davanti a tutto il popolo burkinabé, quali erano stati gli sbagli, aveva cominciato a parlare di un processo di rettifica, diceva che negli anni successivi la Rivoluzione avrebbe dovuto addolcirsi.
Ma purtroppo è durata solo quattro anni, non ha avuto il tempo di andare avanti e portare a compimento il suo disegno. Thomas diceva sempre che con la Rivoluzione ogni passo che si compiva era fatto con il popolo. Era meglio fare un passo con il popolo che cento passi senza.
D. Suo fratello è considerato il “Che Guevara d’Africa”. Oggi, a quasi 23 anni dal suo assassinio, continua a rappresentare un punto di riferimento come leader integro e coraggioso. Questo vi dà speranza?
R. Nel 2007, al ventesimo anniversario del suo assassinio, le manifestazioni sono state partecipatissime, soprattutto dai giovani che magari non hanno mai conosciuto Sankara o che erano piccoli allora, ma che comunque sentivano fortemente questa eredità. All’epoca c’erano tanti sacrifici da fare e li abbiamo accettati tutti. Abbiamo visto che non è impossibile vivere come africani, con la dignità africana. Per questo il suo ricordo è rimasto così forte in Burkina, in Africa e nel mondo. Quando Thomas è morto ci portarono quattro chitarre, due biciclette, i suoi indumenti e le sue carte. Tutto ciò che era in possesso del Presidente.
D. Il prossimo anno si vota per le presidenziali, e Blaise Compoaré si ricandiderà di nuovo. Crede che ci sia la possibilità di un cambiamento attraverso il voto?
R. La questione della democrazia è un problema per tutte le popolazioni africane. Come si può decidere di eleggere qualcuno, tra 20 candidati, sulla base di progetti e discorsi politici diretti a chi non sa leggere e scrivere in francese, senza che vengano tradotti nelle lingue locali? Come ti posso votare se non ti capisco? Vince il candidato che riesce ad offrire più magliette e berretti. Una democrazia simile, imposta, non ha senso. Un giorno ero con una mia zia davanti alla tv – lei è analfabeta – mentre il Presidente stava firmando un debito che avremmo dovuto pagare nei prossimi 45 anni. «Ma chi pagherà tra 45 anni?» Mi chiese la zia. «Tuo figlio o tuo nipote le risposi io». «Chi l’ha chiesto questo debito, mi hanno chiesto qualcosa? Perché mio figlio o mio nipote ne dovranno essere responsabili?»
Non ho saputo cosa rispondere, ma ciò dimostra che non parlare francese non significa certo non capire ciò che succede.
D. Come ci descriverebbe l’Africa ed il Burkina Faso di oggi?
R. Quello che succede oggi in Africa è solo questione di strategia politica. In Burkina, attualmente, solo il 10-15 per cento delle persone sa leggere e scrivere, quindi i restanti sono degli spettatori che non hanno nessun legame con le istituzioni, ed è la parte più consistente della popolazione.
Queste sono le vere tragedie del Burkina e dell’Africa in generale: nessuna partecipazione delle masse e corruzione a oltranza. Per esempio, il Burkina non ha nessuna risorsa naturale, ma vive di cooperazione e di aiuti che vengono dall’esterno.
E come si può spiegare allora ci sono persone che magari sono più ricche dei ricchi italiani? Di che cosa si può vivere se non ci sono le risorse naturali? Come si spiega questa accumulazione, se non con la corruzione che gira intorno agli aiuti internazionali?
Quindi oggi è necessario organizzarsi e sta a noi che abbiamo avuto la fortuna di istruirci far capire alle persone che non sanno leggere e scrivere com’è la situazione.
D. Quest’anno ricorre il 50° anniversario dell’indipendenza dalla Francia. Anche in Burkina sono state organizzate grandi celebrazioni.
R. Questa festa costerà dei miliardi eppure non ci si porrà la domanda: «cosa abbiamo conquistato in questi 50 anni? ». Ci saranno le sfilate agli Champs Elysees a Parigi, ma noi continuiamo a chiederci dov’è l’indipendenza se restiamo così strettamente legati al nostro colonizzatore.
Quando, nel 2008, il Paese è stato messo in ginocchio dal carovita e dal rialzo del prezzo del petrolio, ci siamo resi conto di quanto siamo dipendenti dall’estero. Durante la Rivoluzione si diceva che il Burkina non è povero e che bisognava smettere di chiedere sempre soldi.
Addirittura, la Banca Mondiale e il Fondo monetario internazionale, che non amavano la Rivoluzione, mandarono delle lettere di complimenti. Oggi sembra nuovamente impossibile per un Paese africano svilupparsi senza aiuti internazionali: eppure questo noi burkinabé l’abbiamo vissuto e sperimentato.
Ogni discorso faceva leva su idee e slogan che dicevano «contiamo sulle nostre forze» e «rendiamoci autosufficienti». Uno degli slogan più forti era «produrre e consumare burkinabé». È emblematico il caso delle fabbriche di cotone: si producevano tessuti 100 per cento burkinabé, e questo ha permesso alle donne che lavoravano nella tessitura di provvedere all’istruzione per i loro figli.
Fierezza, patriottismo e sicurezza economica per l’autosufficienza. Ecco, questo dobbiamo ritrovare.
Tratto da Left-Avvenimenti del 23 luglio 2010