Questa è tutta un’altra Africa. Non quella che siamo abituati a conoscere. Quest’Africa è fatta di innovazioni, di invenzioni che agli occhi di un occidentale possono sembrare primitive, ma che stanno cambiando il volto di un continente perché sono la base per sconfiggere la fame e la malnutrizione che affiggono ancora milioni di africani.
In più, questi progetti rispondono tutti a una regola ben precisa: ma raggiungere il loro risultato camminando nel solco della sostenibilità, perché per vivere meglio non occorre distruggere l’ambiente. Queste storie sono raccolte in State of the World 2011 – Nutrire il Pianeta, il rapporto annuale realizzato dal Worldwatch Institute, edito in Italia da Edizioni Ambiente e presentato a Roma in una iniziativa del WWF.
Abbiamo chiesto a Danielle Nierenberg, tra le curatrici del volume, di raccontarci alcune di queste invenzioni e lei ci ha parlato di un viaggio nell’Africa Sub-Sahariana, dove una pompa a pedali può garantire cibo a 250mila persone, i pannelli solari alimentano apparecchi per essiccare frutta da vendere a turisti e conservare tutto l’anno e a Kibera, quartiere povero di Nairobi, giardini verticali e sacche piene di terra ha consentito alle persone di produrre il proprio cibo mentre le rivolte isolavano il quartiere.
Perché l’edizione 2011 di State of the World è dedicata all’agricoltura?
L’agricoltura sta vivendo un momento cruciale. Circa mezzo secolo dopo la cosiddetta Green Revolution – il primo tentativo su larga scala di ridurre povertà e fame nel mondo – un ampio numero di famiglie e di persone soffre ancora di mancanza cronica di cibo. Secondo le stime più recenti, sono circa un miliardo le persone che vanno a letto affamate ogni sera, e i numeri aumentano se includiamo nel calcolo l’assunzione insufficiente di micronutrienti come le vitamine e i minerali indispensabili al metabolismo umano.
Per certi versi, riuscire a mantenere i livelli di malnutrizione sotto il miliardo e mezzo di persone può essere considerato un traguardo.
Dopo tutto, la popolazione mondiale è più che raddoppiata dopo i primi successi della Rivoluzione Verde e i contadini hanno aumentato le produzioni a livelli sufficienti a nutrire più di 2 miliardi di persone in più con diete adeguate.
Allo stesso tempo però, la maggior parte di questi risultati sono stati raggiunti ricorrendo a un’agricoltura altamente intensiva, fortemente dipendente dai carburanti fossili, con il risultato che la produzione di cibo in maniera sostenibile per una sempre maggiore popolazione è una delle sfide più grandi del nostro secolo.
Inoltre, gli investimenti per lo sviluppo dell’agricoltura sono ai loro minimi storici: solo il 4% dei fondi ufficiali stanziati negli ultimi 15 anni, sono stati dedicati allo sviluppo agricolo.
Non potrebbe esserci peggior momento per diminuire questi fondi, visto che tutto sembra cospirare per rendere la lotta alla fame del mondo sempre più difficile. La crisi potrebbe offrire un’opportunità per rielaborare le strategie di lotta alla fame da parte dei governi, prendere impegni di lungo termine e ristabilire la sicurezza alimentare come una priorità globale. Ma i prezzi del petrolio e del cibo continuano ad aumentare mentre avanza la minaccia dei cambiamenti climatici e gli accordi internazionali non favoriscono certo le aree rurali.
Osservando questo scenario ci siamo domandati quali innovazioni politiche e tecnologiche abbiano le potenzialità migliori per diminuire la malnutrizione e la povertà riuscendo, allo stesso tempo, a proteggere l’ambiente. Un altro obiettivo del nostro rapporto sta nel raccontare storie di speranza e di successo dell’Africa Sub-Sahariana. È un’area di cui siamo abituati a sentire solamente storie di Aids, conflitti, carestie, e ci dimentichiamo che esiste un’altra faccia del continente, un volto di successo, di speranza e di autosufficienza. Speriamo che State of the World 2011 possa indicare a donatori e fondazioni internazionali i progetti che hanno le carte in regola e le potenzialità per essere replicati altrove.
Come avete scelto i progetti da raccontare?
Il libro nasce da una ricerca sul campo, non lo abbiamo scritto dal nostro quartier generale di Washington, ma è il frutto di una ricerca fatta viaggiando nell’Africa Sub-Sahariana. In 15 mesi abbiamo visitato oltre 250 progetti, abbiamo parlato con contadini, politici, ricercatori e scienziati, giornalisti e Ong, educatori e studenti, cercando di capire che cosa stava funzionando nel loro lavoro per alleviare fame e povertà nelle loro terre senza perdere attenzione per l’ambiente.
Siamo andati nei pascoli più remoti e nelle città più popolate, siamo andati a cercare gli allevatori Samburu del Kenya e a studiare cosa accadeva a Kampala in Uganda, abbiamo incontrato i braccianti delle aree rurali dello Zimbabwe, visitato i caseifici tenute dalle donne e le cooperative ortofrutticole del Ghana e del Niger; abbiamo intervistato i coltivatori di cotone biologico del Burkina Faso e abbiamo imparato dai contadini dei dintorni di Antanarivo, Madagascar, come si produce il riso. E ancora una infinità di altri progetti dell’Africa orientale, meridionale ed occidentale sono stati al centro dei nostri viaggi e del nostro lavoro.
Abbiamo cercato di lavorare con le organizzazioni e le istituzioni locali, conoscere le loro storie e portarle a un pubblico più vasto attraverso il nostro sito web www.nourishingtheplanet.org, dove si possono vedere video, si può partecipare ai nostri social network, si possono ascoltare e vedere interviste, leggere articoli e altri materiali.
Qualche esempio concreto di questi progetti?
Ad Aksum, in Etiopia, ho visto contadini che, in collaborazione con le Ong Prolinnova e Gtz, hanno sviluppato un sistema per aspirare l’acqua e controllare l’erosione del territorio in modo tale da sfruttare al meglio la pioggia che cade in una regione generalmente molto arida. Kas Malede Abreha, un contadino della regione etiope del Tigray, ha inventato una pompa a pedali molto facile da utilizzare che ha incrementato drasticamente la produzione agricola della sua terra, gli ha consentito di ampliare la sua fattoria e fare cose che prima non avrebbe potuto fare, come ad esempio, mandare i suoi figli a scuola. Inoltre Kas ha avviato una sua propria attività, costruisce pompe per gli altri contadini, allenandoli a controllare l’erosione delle loro terre e diventando un esempio di innovazione e successo nella sua comunità. E se una pompa a pedali può avere un suono vagamente primitivo per un pubblico occidentale, questa invenzione sta aiutando più di 250mila persone ad irrigare le loro coltivazioni nell’Africa Sub-Sahariana.
Ma gli esempi citati nel rapporto sono moltissimi. Vale la pena ricordare che uno dei maggiori problemi della produzione di cibo è la quantità che viene sprecata nel ciclo produttivo. Anche se sentiamo sempre parlare della necessità di incrementare la produzione alimentare, i nostri soldi potrebbero essere spesi meglio cercando di ridurre la quantità di cibo che si spreca e che raggiunge una cifra incredibile, tra il 25 e il 50 per cento di quanto si produce.
Tutto lo spreco si distribuisce lungo la catena alimentare, una parte si perde nelle fattorie, una parte nei magazzini, e una parte nei consumi finale. In Germania si stima che i consumatori buttano via almeno un terzo del cibo che acquistano. La buona notizia è che ridurre gli sprechi può essere semplice e poco costoso.
In Kenya e in Mauritania ci sono fattorie che utilizzano tecnologie che consentono loro di rendere le proteine del latte disponibili ai consumatori per tutto l’anno.
Mentre in Gambia utilizzano metodi molto interessanti e convenienti per trasformare cibo che andrebbe buttato: ad esempio grazie ad essiccatori alimentati con pannelli solari riescono a conservare frutta che sarebbe buttata via, mentre in questo modo garantisce vitamine alla popolazione per lunghi periodi di tempo e fornisce alle contadine nuovi prodotti da vendere al mercato e ai turisti.
Infine non dimentichiamo le città africane. Il continente, dove 14 milioni di persone ogni anno si muovono verso le città, sta vivendo un processo di urbanizzazione secondo solo a quello cinese. Secondo le stime, entro il 2020 l’alimentazione di 35/40 milioni di africani di città dipenderà dall’agricoltura urbana. I modelli per sviluppare sistemi di produzione alimentare che utilizzino aree urbane sono davvero molti, alcuni di questi si vedono applicati in molte città europee, ma anche in Africa hanno iniziato a sviluppare progetti legati a questa nuova frontiera.
A Kibera, quartiere di Nairobi considerato tra i più vasti quartieri poveri dell’Africa Sub-Sahariana, nascono giardini verticali per mano di associazioni che riuniscono migliaia di donne. Oppure coltivano verdura in alte sacche piene di terra, un sistema che ha garantito a queste persone sostentamento durante le rivolte del 2007 e del 2008, quando a Kibera non entrava cibo proveniente da altre parti della città.
L’agricoltura urbana ha prospettive molto interessanti a Nairobi come in molte altre città, si chiamino Copenhagen, Bruxelles, Londra, o Accra in Ghanna e Bamako in Mali.
Fonte: avoicomunicare.it
Foto: Chrissy Olson