Il lavoro domestico delle immigrate eritree in Italia negli anni Settanta e l’eredità postcoloniale
Il libro “Le ragazze di Asmara. Lavoro domestico e migrazione postcoloniale” di Sabrina Marchetti, presentato a Roma presso la Casa internazionale delle donne il 9 dicembre, riporta la memoria agli anni ’60-’70, quando allora l’immigrazione italiana aveva una composizione e motivazioni diverse dal fenomeno odierno.
Il libro ha il merito di dare testimonianza della continuità storica legata al flusso di immigrazione e di mettere in luce gli aspetti sociologici, antropologici ed etnografici legati al passato postcoloniale.
L’autrice, come essa stessa afferma, vuole “mettere in luce l’esistenza di un legame fra il paese di origine e il paese di destinazione delle migrazioni, fatto di cruciale importanza nel percorso migratorio delle persone, ma che viene spesso dimenticato. In molti casi, infatti, si cade nell’errore di rappresentare i migranti come persone la cui vita “inizia” nel momento in cui mettono piede nel paese di arrivo, come fossero persone senza passato”.
Attraverso le parole delle intervistate, il libro analizza l’immigrazione delle donne eritree arrivate in Italia negli anni ‘60/’70 ed evidenzia il nesso di continuità tra il passato coloniale del nostro paese e il vissuto delle donne, che arrivarono in Italia per lavorare come domestiche, bambinaie, cuoche e cameriere.
Dal racconto delle intervistate la dimensione post-coloniale si fa strada come elemento della propria identità ed auto-rappresentazione e come aspetto fondamentale della loro esperienza lavorativa.
Emerge dai ricordi del passato coloniale il fatto che gli Italiani venivano visti come l’Occidente modernizzatore e come esempio di civilizzazione e progresso; la popolazione di Asmara, ai tempi della colonizzazione, adotta l’italianizzazione come modello a cui aspirare.
Allo stesso tempo, il background coloniale precedente all’immigrazione verso l’Italia degli anni ’60-’70 evidenzia anche la sottomissione della popolazione eritrea, visibile nella separazione fisica degli spazi ma anche nelle relazioni che si instaurano, che sono solo superficiali e, nel caso di legami sentimentali, sono solo di concubinaggio.
La migrazione verso l’Italia raggiunse il suo apice intorno al 1975 a seguito dell’intensificarsi degli scontri con l’Etiopia e della conseguente crisi economica.
In alcuni casi l’Italia era solo un paese di passaggio verso altre mete europee, in altri casi, con un livello di istruzione medio-basso, molte donne scelsero l’Italia per lavorare, approfittando anche di legami già esistenti con le famiglie italiane.
Il vissuto delle donne arrivate a quel tempo in Italia è molto diverso dalle aspettative e dall’immagine che del paese si erano formate in patria e la tipologia delle relazioni create al tempo della colonizzazione si ripercuotono sulle loro possibilità di emancipazione.
La sensazione di straniamento implica la necessità di rinegoziare la propria posizione all’interno della società italiana. Quest’ultima riproduce la dicotomia tra donna bianca colonizzatrice e donna nera colonizzata e con la reiterazione delle frontiere simboliche e culturali si determina la stessa relazione che c’è tra oppressore ed oppressi.
Allo stesso tempo, pero’, grazie alle competenze di eredità coloniale, le donne eritree affermano di essere “brave serve”, perchè sanno come gli italiani “vogliono che le cose vengano fatte”.
La postcolonialità dunque da un lato facilita le donne eritree nei loro compiti, ma dall’altro lato rappresenta dei lacci che le relegano ai lavori più umili.
Il libro di Sabrina Marchetti ha il merito di voler comprendere le radici simboliche e materiali del lavoro migrante in Italia ed in Europa.
A proposito di ciò l’autrice stessa afferma: “Emerge un elemento valido per tutto il lavoro domestico, ossia la stretta interconnessione fra il lavoro che si svolge e la posizione sociale che si occupa, in cui l’una rinforza l’altra a vantaggio comunque del paese di arrivo. Si tratta della connessione fra l’«essere necessari» e l’essere posizionati come «inferiori». In sostanza: chi si occupa dei compiti più difficili, duri, umili che nessuno vuole fare (come accade nella pulizia della casa o nella cura di anziani e malati) è continuamente costretto dalla società in una posizione di minorità, mancanza di diritti, stigmatizzazione, ecc. Questo è un elemento costante nel lavoro domestico in tutti i contesti storici e a livello globale, difficilissimo da modificare. Perciò bisogna continuare a puntare il dito sull’ingiustizia fondamentale di tale meccanismo”.
Anita Alfonsi