Leggendo Neruda viene voglia di scrivere, viene voglia di far partecipare gli altri di quello che paesi e paesaggi lontani ti fanno nascere dentro.
Il Mozambico per me è così: mi da pace, mi rassicura perdermi con lo sguardo nelle spianate senza fine, nei cieli limpidi dopo acquazzoni tremendi che non lontano da qui stanno portando via case, nel sole accecante e “estragador” che brucia tutto, compresa la mia pelle bianca, simbolo di privilegi impliciti e pregiudizi.
Il Mozambico è un paese enorme, che varia in continuazione. Sempre immobile in un’attesa continua e straziante e contemporaneamente mai uguale a se stesso.
È un paese complicato, non si fa capire subito, bisogna penetrarlo. E anche allora comunque non lo si capisce davvero. Ci sono miriadi di segreti nascosti ai nostri occhi di stranieri che rendono le cose inesplicabili, ma incredibilmente affascinanti.
È anche un paese che svuota, che estenua, che ti succhia l’anima e le energie. Più di una volta ho pensato di star lottando a vuoto, più di una volta mi sono sentita delusa dalle persone che mi circondano, più di una volta ho capito che non facevo parte del loro mondo, che non avrei mai capito il perché certe cose vanno e devono andare in un certo modo, più volte non mi sono sentita accettata per come sono ma per quello che rappresento. È più volte questo mi ha fatto rabbia e mi ha fatto sentire impotente. Però, nonostante questo, ho combattuto e ho lottato contro le apparenze che mi sono state etichettate addosso, più volte mi sono comportata come volevo e non come gli altri si aspettavano che agissi. E, nonostante l’amarezza, ne sono stata felice.
Questo paese grande e bello ha tanto da offrire, nonostante i ripetuti sabotaggi da parte dei politici che lo governano di saccheggiare il suo patrimonio e la sua ricchezza. È un paese completamente dipendente dagli “aiuti umanitari” e dalle imprese private che si appropriano di parti di esso per farne quello che vogliono col bene placito della classe dirigente, che sorride soddisfatta.
Ma è anche il paese dei bambini, delle donne che coltivano i campi, dei vecchi che parlano solo strani dialetti locali, degli uomini che bevono birre. Dell’accettazione tranquilla, ma non rassegnata, di qualsiasi cosa accada, di qualsiasi malattia –perché tanto prima o poi la morte entrerà comunque in noi-, di qualsiasi decisione piovuta dal cielo. E è il paese della gente che aspetta speranzosa un qualche evento che spieghi la sua esistenza. È il paese delle persone che si rivolgono ai “curandeiros” per risolvere qualsiasi problema, perché tutto ha a che vedere con gli spiriti, che non sono solo spiriti dell’al di là, ma che ci circondano in ogni momento e in ogni luogo.
È il paese delle galline raspanti e delle capre ai bordi delle strade. È il paese delle palme e degli enormi “embondeiros”.
È il paese delle persone umili che dicono sempre di sì solo perché sei diversa da loro, e anche quello di incredibili menzogne e bugie inventate per non dire la più semplice verità. È il paese di politici corrotti che basano la propria campagna elettorale su motti come “combattere la povertà assoluta” o “prestiamo fede a quello che diciamo” e poi sfoggiano pance strabordanti e proprietà evidentemente acquisite in barba alla profonda semplicità del paese.
È il paese dove le persone hanno più paura delle piogge che delle automobili, perché queste ultime si portano via solo la persona, mentre le prime distruggono tutto il poco che hanno.
Non lo so, ormai il Mozambico fa parte del mio sangue, mi ha fatta crescere, mi ha fatto capire cose che saranno importanti per la mia vita e che spero di non dimenticare. Il Mozambico ormai è dentro di me, con tutta la sua complicatezza e le sue contraddizioni, e io sono in lui, con tutte le mie.
di Flavia Zecchin
(Flavia Zecchin vive in Mozambico dal 2008)