È il principio dei vasi comunicanti applicato in chiave migratoria. Di fronte a un ostacolo, il flusso prende nuove direzioni. È quanto sta accadendo nel Sahel. Dato il rafforzamento delle frontiere del Niger, il Ciad è diventato una rotta emergente nell’esodo verso il Nord e, da lì, alle coste europee, per migliaia e migliaia di uomini, donne e bambini, in fughe dalla violenza terrorista, dai disastri ambientali e carestie. Drammi che, spesso, i Paesi da soli non possono risolvere. Da qui, l’impegno della cooperazione italiana ad agire sulle aree di crisi, m supporto alle istituzioni locali. «È una questione umanitaria, in primo luogo. Ma è altresì una questione di sicurezza e geopolitica», spiega Mario Giro, viceministro degli Esteri, appena rientrato da una missione in Ciad, dove ha incontrato il presidente, Idriss Déby e il titolare degli Esteri, Hissein Brahim Taha.
Perché il Ciad e i suoi problemi riguardano direttamente l’Italia?
«Poiché è in corso un’emergenza, oltretutto in un Paese con cui abbiamo una forte relazione. Il Ciad si sente “accerchiato”. E, in effetti, le sue frontiere sono particolarmente “calde”. A sud-ovest, c’è la Nigeria, da cui colpiscono i terroristi di Boko Haram. A sud, la Repubblica Centrafricana, ancora instabile nonostante i passi avanti. Più a est, il Darfur, crisi tuttora in atto nonostante sia diventata invisibile. A nord, inoltre, il Ciad condivide oltre mille chilometri di confine con la Libia. È comprensibile che si sentano a rischio. Sostenere questa nazione, dunque, è anche un modo per contrastare in modo efficace il jihadismo. Vi è, poi, la questione migratoria… »
Si riferisce al fatto che il Ciad è uno dei nuovi corridoi africani verso l’Europa?
«Lo sta diventando, anche se per ora i numeri non sono cosi elevati. La nazione ospita almeno 100mila profughi. Il recente flusso di persone in fuga da Boko Haram, si somma a ondate precedente di profughi centrafricani e darfuriani. Per la nazione, povera e in gran parte desertica, si tratta di un impatto importante».
Come aiutarla a gestirla ed evitare che tanti siano costretti a rischiare la vita sulle carrette del mare?
«L’elemento fondamentale è ridurre al minimo la fase di emergenza e di assistenza. E consentire ai nuovi arrivati di poter lavorare e integrarsi nel tessuto socio-economico. La cooperazione, pertanto, si sta orientando verso sistemi creativi di aiuto che rendano i profughi soggetti attivi. Attraverso la concessione di prestiti per attività agricole e micro-commerci, la riattivazione delle scuole… L’Italia è impegnata in prima linea in tal senso. Come già annunciato, abbiamo stanziato trenta milioni per i prossimi tre anni per la cooperazione con i Paesi della regione – Ciad, Niger, Nigeria Camerun – che si aggiungono a un precedente contributo, l’anno scorso, di sei milioni».
Questa in Ciad è l’ultima di una serie di missioni da lei svolte Africa. Perché tanta attenzione per il Continente?
«L’Africa è la profondità strategica dell’Europa. Ci è vicina, non solo geograficamente. Come dimostra il flusso di migranti che approda sulle nostre coste».
Fonte: esteri.it