«Un milione di migranti pronti a partire dalla Libia? Non giochiamo con le cifre». Per Mario Giro, il viceministro agli Affari Esteri che venerdì a Catania ha incontrato i rappresentanti della Comunità di sant’Egidio e presentato il suo libro «Noi terroristi. Storie vere dal NordAfrica a Charlie Hebdo» (edito da Guerini e associati), le parole sono pietre specie quando si discute di emergenza sbarchi: «Certe affermazioni creano allarmismo sociale», avverte il rappresentante del Governo. Eppure, era stato il generale Paolo Serra – consigliere militare dell’inviato Onu in Libia – a pronunciare quel numero nel corso della sua audizione in commissione Schengen alla Camera.
Previsioni a parte, le «zattere dei disperati» sono tornate a fare rotta verso le nostre coste. In aumento gli approdi in questi primi mesi dell’anno, se confrontati con lo stesso periodo del 2015. L’Italia si ritroverà da sola a gestire questo esodo?
«Noi sappiamo che il problema è epocale, che andrà avanti. Necessario imparare a gestirlo in termini europei. È uno scandalo che 500 milioni di abitanti, in uno dei luoghi più ricchi del Pianeta, non sappiano gestire un paio di milioni di rifugiati. L’Italia, come ha detto il premier Renzi, farà da sola finché l’Europa non si convince. In Libia, intanto, un lento e progressivo accordo si sta stringendo fra le parti. Dobbiamo avere pazienza, attendere la ricostruzione di quello Stato che renderà più facile controllare i flussi».
In territorio libico, stando a recenti stime statunitensi, sono raddoppiati negli ultimi diciotto mesi i miliziani del Califfato: da 4 a 6 mila. Come si fa a disinnescare questa minaccia?
«Lo devono fare i libici, non c’è altra soluzione. Abbiamo visto cosa succede quando bombardiamo in ordine sparso: non si fa che aumentare il tasso di violenza e questo è ciò che vuole l’Isis. Ci sfida su questo terreno. Noi dobbiamo contenere i rischi e avere pazienza, come stiamo facendo. In Libia è ancora possibile vivere. Se i cittadini di Derna sono riusciti a cacciare i miliziani del Califfato, questo sarà possibile anche per gli altri. Ribadisco, pero, che bisogna avere pazienza».
L’Europa, intanto, è tornata a costruire muri e alzare barriere. Una soluzione?
«Noi ci auguriamo che l’Austria si renda conto di cosa sta facendo. Fare un muro non serve a niente, questi flussi sono come l’acqua e continueranno. Vanno gestiti, non si deve perdere la testa. In ogni caso, l’Unione Europea è l’unica risposta mentre l’Europa delle piccole patrie asserragliata dietro gli steccati non ha mai funzionato. Ha provocato solo guerre. Se dobbiamo commettere errori, almeno facciamone di nuovi».
Sono passati pochi mesi dall’uscita del suo libro, altri massacri sono stati commessi dopo quello del 7 gennaio 2015 allo “Charlie Hebdo” di Parigi. Dobbiamo rassegnarci a convivere con la paura, diffidando persino dei nostri vicini di casa?
«Rassegnarci, mai. Purtroppo, però, dobbiamo essere consapevoli che il fenomeno del terrorismo in Europa è preesistente rispetto alla nascita di al-Qaeda, dell’Isis, e ce lo porteremo dietro anche dopo. Esiste, innanzitutto, un problema di integrazione in quelle comunità che si sono autoghettizzate. Le seconde, terze, generazioni di immigrati sono quelle psicologicamente più fragili e si lasciano convincere dai reclutatori di morte con discorsi ideologici che non hanno niente da spartire con la teologia islamica. Ad esempio, quando l’Isis dice che il jihad è la risposta alla depressione, fa un discorso di psicologia occidentale».
A proposito degli jihadisti europei, lei li definisce “figli di un’integrazione fallita e del disagio divenuto violenza”. Dove hanno sbagliato Francia e Belgio?
«Io non credo che si possa parlare di veri e propri errori. Nei grandi processi di integrazione, qualcuno sempre sfugge. Ad ogni modo, un luogo in cui non possiamo permetterci di sbagliare è la scuola. Le seconde generazioni hanno problemi in famiglia perché i genitori, ancora legati al vecchio mondo, hanno limiti di autorità. La scuola, così , diventa uno snodo fondamentale».
Carceri affollate nel nostro Paese da extracomunitari di fede musulmana. Per il procuratore nazionale antiterrorismo Franco Roberti, cresce specialmente negli istituti minorili il rischio-reclutamento di potenziali “bombe umane”. Siamo impreparati a gestire il problema?
«Il carcere è un grande luogo di reclutamento, dobbiamo saperlo controllare. Si finisce in cella a causa di piccoli reati per uscire, poi, trasformati in grandi criminali oppure in jihadisti. Sono la causa di fenomeni di solidarietà negativa e di omertà che noi italiani conosciamo perfettamente».
Cioè?
«Sono meccanismi usati anche dalle mafie e dal terrorismo nostrano. Magari, belgi e francesi possono restare sorpresi. Noi, no. Perché abbiamo negli occhi le immagini della Polizia che va a prendere un latitante e le donne del quartiere si oppongono. Ripeto: noi sappiamo molto bene cosa sono le solidarietà negative, abbiamo quindi cultura e mezzi per contrastarle».
Meglio, dunque, depenalizzare e svuotare le celle?
«Dobbiamo fare in modo che il carcere, se ancora non è il luogo della redenzione, almeno non sia terreno di peggioramento».
Le armi non bastano contro i miliziani. Possibile moltiplicare i casi di estremisti pentiti come H. M., l’algerino di cui lei nel suo libro racconta la “fuga dalla guerra santa”?
«Non solo è possibile, ma è anche auspicabile. Dobbiamo attrezzarci per il fenomeno del pentitismo e noi italiani sappiamo come si fa. Quello jihadista è un mondo molto più debole di quanto non appaia, anche se riesce a creare una narrazione forte. Non dobbiamo avere paura. Speriamo che la nostra esperienza possa essere utile ai nostri partner europei in una sempre più stretta collaborazione tra polizie, magistrature, servizi di intelligence. Difficile, ma necessaria».
Fonte: esteri.it