Un reportage a tappe di Matteo De Checchi dai luoghi del lavoro bracciantile nel Sud Italia tra sfruttamento e disinteresse istituzionale.
Autore: Matteo De Checchi
“Asinu puta e vigna fa racina” è un antico proverbio siciliano, quando qualcuno pota, allora la vigna fa l’uva. Il problema, oggi, è capire chi, in Sicilia, come nella maggior parte del Meridione d’Italia, pota quella vigna, raccoglie la verdura o la frutta, zappa la terra, si spacca la schiena per qualche manciata di euro l’ora, in nero e sotto la “protezione” di qualche caporale.
Viaggiare da Catania a Gela, percorrere il territorio della Sicilia orientale, significa perdersi in sconfinate distese di teloni bianchi e grigi, alcuni divelti dal vento di scirocco, simbolo di un’agricoltura che non si ferma mai, nascosta sotto serre di metallo e plastica che garantiscono le fragole in dicembre e i famosi pomodorini di Pachino per tutto l’anno.
La Sicilia è diventata, dagli anni Settanta in poi, la patria della serricoltura intensiva: grandi “piantagioni” in territori dispersi, in parte spopolati, dove la terra rossa garantisce un’ottima fertilità, dove il sole splende per buona parte dell’anno diventando una “stufa” (poco) naturale fondamentale per mantenere la temperatura all’interno delle serre.
Vittoria è un comune con poco più di 60 mila abitanti in provincia di Ragusa; quando si entra in paese ci si rende conto che l’italiano è un optional, qui si parla siciliano, nella variante sud-orientale, forse la variante più caratteristica e melodica. Ma non può sfuggire allo sguardo la presenza, nella piazza principale, di un alto numero di persone di origine magrebina. Sono i lavoratori delle serre; dal Marocco sono arrivati a Vittoria all’inizio degli anni ’70, probabilmente la prima immigrazione verso l’Italia; all’inizio in pochi, pochissimi, poi via via sempre di più, lavoratori infaticabili e raccoglitori dei prodotti della terra. Negli anni in cui la mafia si radicava prepotentemente, i nuovi immigrati hanno cominciato a stabilirsi con le famiglie comprando vecchie Mercedes a gasolio e, in parte, lottando in solitaria per smarcarsi dallo strapotere dei caporali mafiosi.
Oggi le cose sono cambiate, mi racconta Zino Pitti, cittadino di Vittoria e coordinatore di Emergency: i marocchini, e qualche tunisino, sono riusciti a stabilirsi nel territorio portando avanti un dialogo proficuo con le comunità italiane riuscendo così, non senza difficoltà, ad uscire da una situazione di invisibilità e marginalità; dall’inizio degli anni Novanta, però, con la crisi della serricoltura, il loro posto è stato preso dai rumeni, arrivati in Italia come comunitari.
In una immaginaria linea di una ottantina di chilometri, collegamento tra Vittoria e Gela, vivono migliaia di braccianti agricoli rumeni. Zino non si scompone, non riesce a darmi delle cifre precise, mi ripete, sotto il caldo sole siciliano, che sono tanti, proprio tanti. E non sono uomini. La maggior parte della forza lavoro è composta da donne che vivono una drammatica condizione di invisibilità.
Difatti, nella zona di Vittoria e nell’area costiera che porta verso Pachino, non esistono ghetti o tendopoli, le donne rumene vivono all’interno della “piantagione”, spesso in piccoli casolari rurali a ridosso delle serre, in condizioni igienico sanitarie pessime, senz’acqua e senza corrente elettrica. A volte le braccianti si portano una parte della famiglia, solitamente i figli che spesso non frequentano la scuola e vivono all’interno delle tenute agricole, di fatto escludendosi da qualsiasi rapporto sociale o di comunità. E proprio a Vittoria si è registrato, nell’ultimo decennio, un impressionante aumento di casi di aborto tra le braccianti dell’Est, vessate e violentate dagli stessi proprietari delle serra. Ironia della sorte, l’USL di Vittoria ha quasi tutti medici obiettori di coscienza costringendo così le donne a tornare in Romania per sottoporsi ad un aborto illegale. Le loro condizioni di vita non sono così dissimili da quelle delle schiave africane impiegate nelle grandi piantagioni di cotone americane tra il Settecento e l’Ottocento.
E, mi racconta Zino, nonostante un costante lavoro di Emergency, con un progetto per la conoscenza dei diritti in campo sanitario partito nel 2014, le lavoratrici rumene restano ai margini, vivono nelle campagne più nascoste senza essere minimamente sindacalizzate.
Un sistema ben rodato, in parte gestito e voluto dalla mafia, che riempie di pomodori, melanzane, zucchine e fiori il mercato ortofrutticolo di Vittoria, il più grande del centro-sud Italia.
Spostandosi verso nord, in un territorio pesantemente trasformato dalle serre, chiuso tra l’autostrada Rosolini-Catania e il mare, si incontra un piccolo paese, Cassibile, noto per la famosa riserva naturale orientata di Cavagranda del Cassibile; qui esistono ben due ghetti, ovviamente nascosti a qualche chilometro di distanza dal paese.
Appena entro nel primo, a Cassibile vecchia, mi rendo conto che più di un ghetto si tratta di un insediamento informale popolato principalmente da marocchini che, una volta occupate e sistemate vecchie case in muratura, hanno ricreato un piccolo angolo di Maghreb in terra di Sicilia. Visito da fuori la loro moschea, resto meravigliato dai tantissimi tappeti rossi che abbelliscono quest’angolo di povertà, ma mi accorgo subito di non essere ben accetto.
Mi dirigo allora verso la montagna che sovrasta il paese, all’interno della tenuta di un marchese della zona, morto qualche decennio fa. Giro la campagna per ore finché, ad un certo punto, vedo spuntare tre ragazzi africani da una stradina sterrata; mi avvicino a loro e li convinco ad accompagnarmi dove vivono. In lontananza comincio a scorgere uno dei più grandi ghetti della Sicilia, la “jungle” di Cassibile.
La struttura è quella dei classici ghetti del Sud, casolare rurale al centro e tutto intorno una distesa di tende, alcune igloo, riparate da alberi secolari. La comunità più rappresentativa è quella sudanese ma non mancano ciadiani del Sahel, scappati dalla guerra civile che ha colpito la loro terra natia, marocchini, tunisini e una manciata di ghanesi. Tutti lavorano la terra sicula per pochi euro l’ora, alcuni mi raccontano che faticano a guadagnare 300 euro al mese.
Ma l’elemento dirompente di questa jungle, dimenticata da tutte le associazioni che si occupano di bracciantato africano, è il forte senso di comunità che si è creato negli anni e rappresentato da una cucina comune con tanto di “chef” sudanese, TV, forno elettrico e vasta scelta di dolci, un punto di aggregazione indispensabile in una situazione di estrema difficoltà.
Comunque, al di là delle apparenze, in questo ghetto non passa un medico da circa due anni e solo l’iniziativa di alcuni privati cittadini consente ai braccianti di avere qualche vestito in più.
Mi fermo con loro per qualche ora, discutiamo di lavoro e alcuni mi fanno presente le loro precarie condizioni di salute. Molti provengono dalla raccolta delle arance a Rosarno o dei pomodori a Boreano quindi vivono in quelle condizioni da parecchio tempo.
Continuo a guardarli negli occhi consapevole che la loro lotta sta diventando, sempre di più, anche la mia!
* Fotografie di Valentina Benvenuti
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Fonte: migrantitorino.it