«Noi non dimentichiamo l’importanza dell’Egitto come soggetto di stabilità di un’area cruciale come è quella del Mediterraneo. Ma anche per questo riaffermiamo con forza che queste relazioni, questi rapporti non possono far velo in alcun modo alla ricerca della verità sulla morte di Giulio Regeni». A ribadirlo, nell’intervista concessa a l’Unità, è il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Il titolare della Farnesina è oggi impegnato su due fronti caldissimi: quello legato alla ricerca della verità sul brutale assassinio del giovane ricercatore italiano al Cairo, e sul versante libico. L’Italia chiede ad un Paese alleato la verità e la punizione dei colpevoli per la fine atroce di Giulio Regeni, torturato e barbaramente ucciso. Una cosa è certa: «Non ci accontenteremo di una verità di comodo né di piste improbabili, come quelle evocate oggi (ieri per chi legge, ndr) dal Cairo. Lo dobbiamo alla famiglia di Regeni e alla dignità del nostro Paese».
Signor Ministro, è trascorso un mese da quando Giulio Regeni scomparve al Cairo, per essere poi ritrovato cadavere qualche giorno più tardi. Lei ha più volte affermato che l’Italia non si accontenterà di verità di comodo…
«Questo è assolutamente certo. Non possiamo, non vogliamo rinunciare alla verità e a processare i colpevoli di questo efferato delitto. L’impegno nostro c’è e non sarà il trascorrere del tempo ad attenuarlo. È un’assunzione di responsabilità che non verrà meno, questo lo posso assicurare».
Tuttavia le autorità egiziane continuano a sfornare a getto continuo nuove ricostruzioni e piste: ultima, in ordine di tempo, è quella del ministero dell’Intero secondo cui Giulio potrebbe essere stato vittima di una «vendetta personale».
«Su questa possibilità la posizione dell’Italia è quella che ho rimarcato oggi (ieri per chi legge, ndr) nel Question Time alla Camera: l’Italia chiede verità e non piste improbabili».
È possibile fare un bilancio di queste settimane di indagini che hanno visto impegnato, e tuttora in campo al Cairo, un team italiano di investigatori.
«C’è una cornice ufficiale di collaborazione e il nostro team investigativo viene informato dalla Procura di Giza, ma certamente la collaborazione può essere molto più incisiva. Per quanto ci riguarda, abbiamo fatto arrivare attraverso canali diplomatici alcune richieste precise alle autorità egiziane che stanno indagando. I nostri investigatori non possono essere solo informati, devono avere accesso ai documenti sonori e filmati, ai reperti medici, agli elementi del processo in possesso della Procura di Giza. Su questo punto vorrei insistere con forza, perché è davvero un punto cruciale: l’Italia non accetterà mai verità improbabili. La collaborazione c’è ma può essere decisamente più incisiva. E questo anche per una ragione che non intendiamo certo oscurare o minimizzare».
A cosa si riferisce?
«Quando avanziamo le nostre richieste, quando chiediamo verità e giustizia per Giulio Regeni, lo facciamo avendo ben presente che questa richiesta viene rivolta a un Paese. l’Egitto, la cui stabilità è cruciale in un’area, quella del Mediterraneo che, è bene tenerlo ben presente, oggi rappresenta l’epicentro di un disordine globale. Non è che dimentichiamo questi rapporti, ma proprio per questo, anche per questo, non possiamo rinunciare alla verità e a vedere processati i colpevoli».
Signor Ministro, nel disordine globale che ha il Mediterraneo come suo epicentro, un fronte caldissimo per l’Italia è quello della Libia. L’Italia è stata in prima fila nel sostenere gli sforzi diplomatici per arrivare alla costituzione di un governo di unione nazionale. Cosa c’è alla base di questo impegno?
«C’è la profonda convinzione che la soluzione della crisi libica non è in improbabili missioni militari. Chi lo pensa commette un grave errore L’Italia sta coordinando gli sforzi di pianificazione per rispondere alle richieste del nuovo governo libico sul terreno della sicurezza. Stiamo guidando un processo internazionale, ma il processo è molto fragile, la strada non è certamente in discesa».
C’è chi sostiene, anche tra gli alleati europei, che razione militare è decisiva per contrastare il terrorismo e la penetrazione del «Califfato» in Libia. Cosa risponde al riguardo?
«Dobbiamo distinguere le attività contro il terrorismo dalla soluzione della questione libica: sono due terreni distinti. In Libia abbiamo bisogno di un Paese stabile, di un interlocutore di governo che consenta all’Italia e all’Europa di gestirei flussi migratori, combattere il terrorismo e i trafficanti di esseri umani».
Ma perseguire ancora la strada della soluzione politica non rischia di essere una via senza uscita?
«Per la stabilità della Libia non esistono scorciatoie militari. Per questo continuiamo a insistere ma la decisione è libica: nonostante il rinvio (del voto del parlamento di Tobruk sul governo, ndr), è stata manifestata una schiacciante maggioranza favorevole all’accordo, e su questa la comunità internazionale investirà».
Fonte: esteri.it