«È un buon inizio. Ma ora parte una trattativa delicata, complessa e piena di incognite». Paolo Gentiloni dopo una notte di trattative e di contatti con l’Europa, sceglie la linea del realismo. «La proposta della Commissione europea sull’immigrazione non va scambiata per una decisione finale. È un passo positivo, si fissa un principio nuovo. Ora però tocca agli stati membri. E sappiamo bene quanto siano forti le resistenze anche di Paesi importanti».
È mattina presto e il ministro degli esteri, chiuso nel suo ufficio alla Farnesina, aspetta l’ufficializzazione di una decisione che già conosce e sposta l’obiettivo al vertice dei ministri degli Interni fissato per metà giugno. É quello il momento chiave. E in quella sede che l’Europa dovrà battere un colpo e dimostrare di avere «lungimiranza e consapevolezza della drammaticità del fenomeno immigrazione». È lì che si «dovrà dire a maggioranza sì alla condivisione delle quote di immigrati».
Perché questi dubbi?
Niente dubbi: oggi bene, poi vedremo. Conosco le resistenze all’idea che l’Unione europea possa imporre delle quote di accoglienza ai singoli Paesi. Ma ora parte il negoziato, ora comincia la partita vera.
Come giudica le timidezze di Francia e Spagna?
Non giudico, discuto con loro. E penso che un no di Francia e Spagna sarebbe francamente sorprendente. Sono due grandi democrazie con tradizioni di apertura e di diritti: come possono pensare di bloccare una scelta di condivisione europea solo perché questa comporta di accogliere seimila e quattromila migranti?
Un no dei 28 sarebbe un colpo duro per l’Italia?
Per l’Italia non è la frontiera del Piave: questa decisione è più importante per l’Europa che per noi. Sarò chiaro: la proposta della Commissione e un sì dei 28 non risolve il problema immigrazione, ma certo è un antidoto per la crisi di coscienza dell’Unione.
Ministro si spieghi.
L’Unione prima di aiutare l’Italia, aiuta se stessa a essere Europa. Dire sì alla condivisione delle quote, significa passare, in questo campo, da una stagione dominata dagli egoismi e dalla dittatura dei regolamenti a un’altra stagione dove si reagisce insieme alle sfide politiche.
E allora qual è il messaggio all’Europa?
Uno: l’egoismo rischia di far fallire un grande progetto. Due: il risveglio di coscienza europea non può esaurirsi in poche settimane. Tre: su immigrati e accoglienza l’Europa è chiamata a un contributo quasi simbolico, stiamo parlando di appena i110 per cento degli immigrati che arrivano sulle nostre coste. Numeri piccoli, ma una scelta che conta moltissimo.
Meno del 10 per cento?
I numeri sono numeri: l’anno scorso sono arrivati 170mila immigrati e la proposta della Commissione parla di ricollocarne per l’Italia 24 mila in due anni. Significa 12 mila l’anno: meno del 10 per cento.
La proposta vale solo per gli immigrati arrivati da aprile. Ai quasi 100 mila immigrati arrivati prima e che sono in Italia pensa solo l’Italia? E ha la forza per farlo?
L’anno scorso abbiamo accolto 170mila immigrati, possiamo accoglierli anche quest’anno. Ma sarà dura, il sistema dell’accoglienza pesa sulla nostra finanza pubblica e l’Europa anche su questo può dare risposte e condividere responsabilità.
Chiederete più fondi?
L’Europa è una super potenza. Nel suo bilancio dare un contributo di alcune centinaia di milioni ai Paesi impegnati in prima fila nell’accoglienza non creerebbe certo una voragine. E anche questo sarà un metro di misura di quanto si voglia rispondere all’emergenza considerandola europea e non solo italiana e greca.
Bruxelles stanzia 60 milioni; l’Italia solo per il 2015 ne ha messi più di 800.
L’Europa fa bene a rivendicare il fatto che i fondi per Frontex siano stati triplicati, ma dobbiamo essere tutti consapevoli che abbiamo triplicato un investimento da tre milioni al mese. Oggi la Ue spende per Frontex nove milioni al mese, sono poco più di cento milioni ogni anno. Oggi non basta più. Oggi il contributo ai Paesi impegnati da protagonisti sul versante immigrazione può essere nell’ordine delle centinaia di milioni, non delle decine. Anche perché – insisto – siamo di fronte a una questione europea e la risposta non può essere solo italiana e greca.
C’è una soluzione al dramma immigrazione?
La soluzione consiste nel gestire e regolare il fenomeno senza drammi. Chi immagina di cancellare il flusso migratorio tra Africa e Europa dimostra di non conoscere il mondo. Le tendenze demografiche e le distanze economiche ci dicono che le migrazioni dall’Africa all’Europa ci accompagneranno peri prossimi anni. La sfida è intervenire sulle cause, è ridurre il flusso, è regolarizzarlo. Guai a illudere gli italiani che il fenomeno migratorio si possa risolvere bloccando i barconi e ributtando in mare migliaia di persone disperate che fuggono da guerre e povertà.
Il d tempo gioca a nostro favore?
Con il tempo il divario economico tra Africa e Europa diminuirà e questo sarà il motore di una riduzione dei flussi. Vent’anni fa parlavamo di boat people oggi non più. Abbiamo vissuto la stagione dell’immigrazione tra le due sponde dell’Adriatico, oggi non riempiamo più lo stadio di Bari di immigrati albanesi. La stabilità di un’area e la crescita economica porta a governare il fenomeno.
Ci crede davvero?
Le cose cambiano con i processi storici. Qualche giorno fa il ministro degli Esteri messicano mi spiegava come i flussi di transito al confine tra Usa e Messico siano oggi a saldo zero: tanti escono e tanti tornano. E questo non succede perché gli Stati Uniti hanno alzato mura invalicabili, ma perché sono cambiate le condizioni economiche del Messico che oggi vive una stagione di imponente crescita economica. Ma ora mi faccia sottolineare ancora un punto: l’immigrazione ha dei riflessi positivi, gli immigrati sono una risorsa. Perché ci sono lavori che italiani non vogliono più fare e perché i soldi che i lavoratori-immigrati mandano nei loro Paesi sono un modo per far fare a quei Paesi un passettino avanti.
Immagino Salvini…
Ognuno potrò fare la propaganda anti-immigrati che crede; è una moneta che in questi mesi circola in Europa. Ma un governo come il nostro non la spende, non la usa, non la trasforma in moneta da campagna elettorale.
A quando una decisione Onu sul contra – sto agli scafisti?
Le dinamiche al consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite non sono rapide e non sono semplici, ma noi stiamo lavorando su un testo che verrà presentato dalla Gran Bretagna. I contatti con russi, cinesi, europei e americani sono continui e questo lavoro potrà portare a un risultato positivo.
II 2 giugno va in scena a Parigi il vertice dei ministri degli Esteri della coalizione anti Is: i terroristi si fermano con le armi?
La risposta militare è in corso: la coalizione interviene con raid aerei, non con militari sul terreno. Stiamo combattendo il terrorismo, ma anche facendo i conti con le conseguenze della stagione dell’interventismo americano. Fine anni Novanta, George W. Bush. Quella stagione ha portato a vittorie militari, alla deposizione di tiranni, ma anche alla distruzione di qualsiasi struttura, anche politica, in quei Paesi. Il saldo non può essere considerato positivo.
Quale può essere il piano che prenderà forma a Parigi? Quale la strategia?
L’Iraq che vuole vincere l’Is non può puntare solo sulle milizie sciite; deve lavorare perché al loro fianco si schierino l’esercito regolare, le comunità sunnite e i curdi. Se diventa una guerra tra milizie sciite e Is il rischio è regalare ai terroristi il consenso della comunità sunnita irachena e questo sarebbe un drammatico errore. Allora ecco la sfida di Parigi: moltiplicare gli aiuti al governo di Baghdad e moltiplicare il pressing affinché coinvolga sunniti e curdi.
Terrorismo e cristiani perseguitati sono le due facce di un dramma e il mondo sembra non capirlo.
L’Italia c’è e i ripetuti appelli di Papa Francesco hanno risvegliato le coscienze. Ma anche su questo abbiamo il dovere di essere onesti, di dire la verità fino in fondo: l’emergenza è ancora Iì. In Iraq e in Siria c’è una situazione complicata, l’Is avanza e la reazione è timida. E, intanto, le comunità cristiane più disperse e più piccole vivono un dramma forse irrisolvibile: sarà terribilmente difficile ricucire le ferite, ridare un futuro a chi ha perso una casa e una terra. Quelle comunità vanno seguite, aiutate, consapevoli che anche una vittoria militare sull’Is non basterà per ridar loro automaticamente un futuro. Solo una pace stabile può ridare serenità ai cristiani d’Oriente la cui presenza è vitale per l’avvenire della regione.
fonte: esteri.it