Le scelte del Governo in relazione alla crisi libica si sono intrecciate con la drammatica vicenda dei nostri connazionali sequestrati in Libia, che si è conclusa con la tragica morte di Salvatore Failla e di Fausto Piano, una vicenda che presenta ancora molti punti oscuri. Com’è noto, cominciò il 19 luglio alle 20,45, a sette chilometri dal complesso della Mellitah oil and gas, che è una joint venture tra ENI e la National oil corporation libica.
In quel momento, un gruppo di quattro connazionali composto da Salvatore Failla, Filippo Calcagno, Fausto Piano e Gino Pollicardo, impiegati presso la ditta Bonatti, provenienti a bordo di un minivan dal confine libico-tunisino di Ras Agedir, è stato raggiunto e fermato da due veicoli SUV. Dai SUV sono scesi uomini armati a volto coperto, alcuni dei quali avrebbero indossato uniformi di tipo militare. Questi hanno sequestrato i quattro lasciando sul posto l’autista libico, originario di Sabrata e lavorava da circa un anno per la ditta Bonatti. Non sono emersi elementi
di riconducibilità a formazioni di Daesh in Libia. Non è mai giunta alcuna rivendicazione. Tra le principali ipotesi in corso, la più accreditata è quella di un gruppo criminale filoislamico operante tra Mellitah, Zuara e Sabrata. L’intelligence italiana ha tempestivamente attivato tutte le risorse disponibili, umane e tecnologiche, e ovviamente ogni collaborazione possibile con i partner della regione e internazionale, per il coordinamento a livello centrale e di cooperazione in ambito periferico. Costante è stato il rapporto tra intelligence e unità di crisi della Farnesina. Nell’ambito dell’attività condotta dall’intelligence sono state acquisite informative da fonti umane e approfondimenti di natura tecnica, senza però mai riuscire a localizzare con sicurezza e precisione i possibili luoghi di detenzione.
Nel pomeriggio del 2 marzo, nell’ambito di quotidiane azioni di controllo del territorio condotte dalle forze locali facenti capo alla municipalità di Sabrata, un convoglio composto da due o tre pick up (del tipo Toyota Tundra), nell’area a Sud di Sorman, è stato ingaggiato in un conflitto a fuoco che ha provocato nove vittime, tra cui purtroppo i nostri due connazionali, che erano stati prelevati dal nascondiglio dove erano detenuti insieme agli altri due connazionali, probabilmente allo scopo di spostarli in due movimenti differenti.
Nelle prime ore del mattino del 4 marzo, Gino Pollicardo e Filippo Calcagno, lasciati incustoditi nel luogo di prigionia, sono riusciti a fuggire e a raggiungere la municipalità di Sabrata, mettendosi in contatto con le famiglie e con le autorità tripoline e italiane. Sulla base delle evidenze emerse, i quattro connazionali sono stati nelle mani dello stesso gruppo durante tutta la durata del sequestro, cambiando, prima degli eventi citati, solo una volta il luogo di prigionia. Per proprie finalità il gruppo dei sequestratori ha lasciato intendere che gli ostaggi fossero stati separati o passati di mano ad altri gruppi, fatto che in questi giorni si è rivelato non essere vero.
Non era stato pagato alcun riscatto, non risulta fosse imminente la liberazione degli ostaggi e non risulta siano stati trovati nel nascondiglio passaporti appartenenti ad elementi di Daesh.
La ricerca della verità è doveroso, vede impegnata la Procura di Roma e il Parlamento giustamente la esige. Ma questo non vuol dire in alcun modo avallare voci e insinuazioni che provengono da un contesto interessato ovviamente ad ogni forma di strumentalizzazione. È in circostanze come queste che siamo chiamati a mostrare il volto di un’Italia coesa, che si stringe attorno alle famiglie delle vittime, che saluta i connazionali che si sono salvati, che si unisce agli apparati di sicurezza impegnati sul campo, ancora in queste ore, per il rientro delle salme. Un grande Paese si comporta cosi, almeno in questi casi, lasciandosi alle spalle bagarre e contrapposizioni di parte.
Il sequestro e perfino le modalità penose del rientro dei nostri connazionali ripropongono alla nostra attenzione la criticità e la pericolosità della situazione in Libia. A cinque anni dalla caduta di Gheddafi, il Paese è diviso, frammentato, attraversato da un’alta conflittualità e vede una presenza di Daesh e di diverse formazioni jihadiste.
Di fronte a questo quadro, credo che il Parlamento debba innanzitutto interrogarsi partendo dal nostro interesse nazionale. Qual è il nostro interesse nazionale? Il nostro interesse nazionale è quello di evitare che il processo di disgregazione in atto prosegua o addirittura si accentui. Evitare il collasso della Libia, insomma; evitare un collasso che trasformerebbe quel Paese in una polveriera, oltre ad accentuare una già incipiente crisi umanitaria. Gli stati falliti sono ormai più pericolosi degli stati canaglia, ha detto il presidente Obama all’ultima Assemblea generale delle Nazioni Unite.
Evitare il collasso, dunque, e ritessere la tela della sovranità. Serve un governo legittimo, capace di riconciliare Tripolitania, Cirenaica, Fezzan e l’enorme quantità di milizie presenti in Libia, di riacquisire gradualmente – non sarà un’operazione di poche settimane – il controllo del territorio, di prosciugare l’acqua nella quale nuota Daesh, di contrastare il traffico di essere umani, da cui derivano i flussi di immigrazione clandestina, e di valorizzare le risorse libiche, che certamente non mancano. L’obiettivo di questo Governo, di un Governo capace di avviare questo percorso, è emerso a metà dicembre dalla conferenza organizzata a Roma dall’Italia e dagli Stati Uniti, che ha reso possibile poi, sempre a dicembre, gli accordi di Skhirat in Marocco e subito dopo la risoluzione n. 2259 delle Nazioni Unite.
Noi lavoriamo con ostinata convinzione alla realizzazione di questo obiettivo che, anche grazie all’iniziativa italiana, è diventata finalmente possibile dopo un anno e mezzo di situazione bloccata del negoziato libico. Tuttavia, come è del tutto evidente, non abbiamo ancora raggiunto questo obiettivo. Dal primo momento non ho certo nascosto la fragilità del percorso avviato a Roma a metà dicembre. Del resto, come potrebbe non essere fragile un percorso nella regione attraversata da un disordine permanente e drammatico? Come potrebbe non essere fragile in Libia? Chiunque conosca, anche da lontano, questo Paese sa quanto complessa e frammentata sia tale realtà, non certo riconducibile soltanto alle due istituzioni – l’HoR di Tobruk e il GNC di Tripoli – sulle cui maggioranze si basano la mediazione e l’accordo costruito dalle Nazioni Unite. Per quanto fragile, questa, onorevoli senatori, è la sola base su cui lavorare. C’è una maggioranza nell’organismo che, per così dire, deve dare la fiducia al nuovo Governo libico: mi riferisco alla maggioranza di 101 parlamentari dell’HoR di Tobruk. A questa maggioranza è stato impedito di esprimersi in occasione dell’ultima riunione svoltasi una decina di giorni fa. Mercoledì scorso il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha discusso a New York le modalità per consentire a questa maggioranza, nonostante il boicottaggio degli estremisti, di esprimersi in qualche modo. Noi appoggeremo questo tentativo per consentire a questa maggioranza di esprimersi e dare finalmente il via libera al Governo.
Anche in questo caso, non facciamoci illusioni: sarà solo un primo passo e, poi, bisognerà includere altri settori e forze che oggi non partecipano a questo processo, che ha bisogno di maggiore inclusione e solidità. In seguito, bisognerà trasferire questo Governo a Tripoli. Si tratta di una sfida a cui da settimane sta lavorando, per conto delle Nazioni Unite, il generale italiano Serra. Nel frattempo, l’Italia dovrà proseguire nell’impegno umanitario sul piano degli aiuti e – impegno che il Governo conferma – a continuare a curare i feriti che si producono negli scontri in Libia.
Questo Governo legittimato farà le sue richieste ed è in questo scenario che lavorano, per la pianificazione, i Ministri della difesa, coordinati dal ministro Pinotti e dall’Italia. Lavoriamo per rispondere ad eventuali richieste di sicurezza del Governo libico niente di più e niente di meno -, nel rispetto della Costituzione visto che c’è una risoluzione delle Nazioni Unite che lo prevede. Ovviamente, lo faremo soltanto in seguito al via libera da parte del Parlamento, come ha ricordato qualche giorno fa il Presidente del Consiglio.
So bene che questo percorso ad ostacoli può apparire troppo lento. Vedo benissimo il consolidarsi di Daesh in Libia. Paradossalmente, è stato proprio il recupero del 40 per cento del territorio iracheno occupato da Daesh da parte della coalizione a spingere qualche elemento dei combattenti di Daesh verso la Libia. Oggi, secondo le nostre analisi, ci sono circa 5.000 combattenti di Daesh in Libia concentrati, come sapete, nell’area di Sirte, dalla quale sono però capaci di compiere incursioni pericolose sia verso la cosiddetta mezzaluna petrolifera (mi riferisco a Ras Lanufe a tutta la zona limitrofa), sia nel Nord-Ovest della Libia. Sto parlando degli incidenti avvenuti una ventina di giorni fa a Sabrata e all’operazione fatta l’altro ieri in territorio tunisino, a pochi chilometri dal confine Nord-Ovest della Libia.
Sul terreno questi 5.000 combattenti sono contrastati spesso dalle milizie islamiche, soprattutto in Tripolitania. Sappiamo però che il pericolo di un macabro franchising di Daesh, cioè di gruppi locali che si uniscono al marchio del sedicente Stato islamico, è un rischio sempre presente. Da questa minaccia terroristica l’Italia deve difendersi e l’Italia si difenderà, come prevede l’articolo 52 della nostra Costituzione. Del resto, è questa la ragione per la quale il Parlamento a dicembre ha deciso che, in certi casi, operazioni d’intelligence possono richiedere condizioni di sicurezza assicurate dal supporto di unità militari. Di tali operazioni il Parlamento sarà informato attraverso il Copasir, come prevede la legge n. 124 del 2007.
Una cosa deve essere chiara: il contrasto al terrorismo deve basarsi su uno straordinario impegno informativo, quando necessario su azioni circoscritte, su risposte proporzionate alla minaccia effettiva e concordate tra alleati. Tuttavia, non è dal contrasto al terrorismo che possiamo attenderci la stabilizzazione della Libia. Confondere legittima difesa con stabilità della Libia non aiuta; anzi, può provocare spirali pericolose. A chi agita la minaccia di Daesh, che è reale e dalla quale dobbiamo difenderci, per invocare interventi militari, rispondiamo che gli interventi militari non sono la soluzione; talvolta, possono perfino aggravare il problema. A chi snocciola cifre di soldati pronti a partire, magari perché gli italiani non possono sottrarsi perché così fanno tutti, ricordo che la Libia è un Paese che ha un’estensione pari a sei volte quella dell’Italia e che ha circa 200.000 uomini armati tra milizie ed eserciti di diversa bandiera. No, non è proprio un teatro facile per esibizioni muscolari. Insomma, il Governo non è sensibile al rullare di tamburi e non si farà influenzare da radiose giornate interventiste. Il Governo difenderà il Paese dalla minaccia terroristica con le azioni proporzionate che saranno necessarie. Il Governo interverrà, se e quando possibile, per rispondere alle richieste di sicurezza di un Governo legittimo e impegnato a riprendere gradualmente il controllo della sovranità del proprio territorio e lo farà su decisione del Parlamento e coordinando le forze alleate. Il Governo non si farà trascinare in avventure inutili e persino pericolose per la nostra sicurezza nazionale. Contiamo sul sostegno del Parlamento per una linea che deve combinare fermezza, prudenza e responsabilità.
Fonte: esteri.it