Antoni Folkers è un architetto olandese che da ormai 30 anni si occupa di architettura in Africa. “Ci sono città in Africa che crescono ad un tasso del 7%, 8% all’anno”, ha detto l’architetto nell’intervista che segue qui sotto.
Durante la quinta edizione del Forum sull’Africa di Taormina, i prossimi 6 e 7 ottobre, Folkers parlerà di come viene intesa l’architettura in Africa, delle differenze rispetto all’architettura e all’urbanistica occidentale e del perché tutto ciò ci dovrebbe interessare di più.
Il discorso di Folkers rientrerà nell’ambito del panel su “Lo sviluppo urbano in Africa e le opportunità di investimento nei settori collegati: infrastrutture, servizi, energia, mobilità“.
Perché quest’idea di fare architettura in Africa?
E’ iniziata per ragioni molto banali. Semplicemente mi piace l’Africa e sento che c’è molto da imparare da quel continente. Una sensazione questa che ho avuto sin dall’inizio. Poi volevo visitare un posto in cui ci fosse sempre bel tempo. Sta in questo tipo di semplicità la ragione che sta dietro queste decisioni. Può sembrare un pò banale ma questa è la realtà. Possiamo dire anche che si tratta dell’unione di queste due attitudini: il piacere di lavorare in un contesto esotico insieme al voler aiutare qualcuno ovunque si trovi nel mondo. In particolare verso l’Africa, la prima volta che si arriva sul continente, si nutre questo sentimento di pietà. Questi erano i motivi che hanno costituito la spinta iniziale. Da allora, ormai 30 anni fa, non ho più lasciato il Continente.
In quale parte dell’Africa lavora?
Il Continente è veramente enorme e non si può stare in ogni posto. Tuttavia i posti che conosco bene e in cui ho lavorato di più si trovano in Africa occidentale, in Burkina Faso, e in Africa orientale in Tanzania, Uganda, Kenya, Mozambico, Etiopia. Più recentemente anche in Marocco e in Sudafrica. La maggior parte del tempo che passo in Africa, lo passo in Tanzania. Quella è un po’ la mia seconda casa.
C’è un motivo professionale dietro la scelta della Tanzania?
Sì, penso di sì. Di meno al giorno d’oggi, ma in passato, negli anni ’80 e ’90, la Tanzania era il giocattolo degli aiuti allo sviluppo. Quasi ogni paese occidentale aveva progetti in Tanzania perché era un paese molto pacifico e amichevole con un presidente carismatico, Julius Nyerere, che era ben voluto da tutti. Quindi c’erano tanti aiuti e molto interesse verso quel paese e ovviamente era anche una coincidenza perché a quel tempo lavoravo per uno studio tedesco che aveva una sede abbastanza importante in Tanzania. E’ così che iniziò. Ovviamente non c’erano solo i tedeschi ma anche i giapponesi, i canadesi, gli olandesi, i britannici. Chiunque aveva dei progetti in Tanzania negli anni ’80 e ’90. Era veramente un punto d’incontro per gli esperti dall’Europa, dall’America e non solo.
Lei sarà uno dei relatori al prossimo Forum sull’Africa di Taormina, i prossimi 6 e 7 ottobre 2011. Ci può dare delle anticipazioni sul discorso che terrà durante i lavori?
Beh questa è una domanda pericolosa perché ancora non ho iniziato a scrivere il mio discorso. Tuttavia la proposta che verrà avanzata lì è di trovare un terreno comune per i professionisti africani ed europei di cooperare nel continente. In un modo diverso rispetto al passato.
In passato si era molto orientati agli aiuti mentre ora stiamo entrando in un periodo “business oriented”. Il che vuol dire anche che non guardiamo più all’Africa come al continente povero che ha bisogno del nostro aiuto ma come al continente in cui vivono i nostri soci in affari, con i quali possiamo lavorare e dai quali possiamo imparare alcune cose.
In particolare, nel mio campo di ricerca, l’urbanizzazione in Africa sta conoscendo uno sviluppo incredibile. Non esiste un posto al mondo in cui l’urbanizzazione sta avendo luogo così velocemente come in Africa. Ci sono città che crescono al 7% ,8% all’anno. E’ incredibile. Ovviamente tutto ciò richiede attenzione da parte degli amministratori locali, dagli imprenditori che operano sul posto e potrebbe richiedere la cooperazione di partner europei.
Una delle ragioni che stanno dietro la conferenza è anche quella di capire perché sembra che altre iniziative, in particolare mi riferisco alla Cina e all’India, sembrano avere più successo negli affari rispetto agli europei. Sembra che gli europei siano intrappolati in questo atteggiamento di superiorità di chi aiuta. I cinesi e gli indiani, al contrario, vedono i loro rapporti con l’Africa su un piano orizzontale.
Nel mio discorso quindi mi concentrerò su questi aspetti per quanto riguarda l’architettura e lo sviluppo urbano.
Ho letto sul sito di ArchiAfrika che quest’associazione si occupa di contribuire al raggiungimento di uno degli obiettivi fissati dall’Onu per la costruzione di abitazioni sostenibili. Cosa fa ArchiAfrika in quella direzione?
Sì, c’è anche questo tra gli obiettivi di ArchiAfrika. Devo ammettere che è un obiettivo molto ambizioso. Devo dire che ArchiAfrika è un’organizzazione basata su una rete con l’intento di fare riunire le persone e i diversi gruppi per portare maggiore attenzione all’architettura africana nel suo insieme. Ovviamente promuovendo l’architettura africana e migliorandola attraverso scambi accademici, l’educazione, con input professionali, ArchiAfrika riuscirà a migliorare le condizioni di vita incontrando così l’obiettivo fissato dalle Nazioni Unite.
Prima di tutto, ArchiAfrika è solo una piattaforma per far incontrare le persone sia nelle conferenze che su internet attraverso il nostro sito web, il database e la nostra newsletter. Devo dire che dopo 10 anni di attività abbiamo ottenuto dei risultati. Siamo stati capaci di far incontrare delle persone e questo vuol dire già raggiungere il nostro primo obiettivo. L’anno scorso abbiamo consegnato alcune proprietà di ArchiAfrika ai nostri partner in Africa.
All’inizio eravamo un’organizzazione olandese con cinque fondatori olandesi, tutti architetti. Adesso ne siamo tutti fuori. Ovviamente siamo in contatto ma non prendiamo più decisioni per ArchiAfrika. All’inizio l’organizzazione era in mano nostra, adesso è in mano ai nostri colleghi africani.
Dal punto di vista tecnico, cosa trova di nuovo nell’architettura africana?
Questa è una domanda molto importante con cui ho avuto a che fare negli ultimi 30 anni perché mi viene rivolta abbastanza spesso. Mi si chiede: che cosa hai imparato in Africa? e “Cosa ti attrae?” e “Perché rispetti così tanto l’architettura africana? Lì ci sono solo baracche, slums e povertà”. Entrambe le cose sono vere. C’è tanta povertà. Ma in quella povertà di tanti cittadini africani si trova un’enorme creatività ed energia che è stata usata per costruire le loro città.
Molte di queste sono state costruite dai loro stessi cittadini senza l’intervento di architetti e solo con un modesto contributo da parte degli urbanisti. Se si prende in considerazione cosa hanno realizzato in termini di qualità del loro ambiente di vita, ovviamente ci sono eccezioni, ci sono baraccopoli, ma in generale gli insediamenti informali, come vengono chiamati, alla periferia delle città africane, sono spesso dei posti dove si può vivere abbastanza bene, qualche volta anche molto bene. Sono dei posti dove c’è molta attenzione sul come le persone si riuniscono, su come le persone vivono.
Questa creatività, questo modo di creare il proprio ambiente speciale è qualcosa che è molto distante da ciò che facciamo in Europa. Soprattutto nel mio paese dove ogni insediamento è sottoposto a regole e ad istituzioni formali, dove rimane pochissimo spazio per l’individuo, per il cittadino affinché questi possa creare il proprio ambiente. Questo è uno degli aspetti.
Un altro aspetto riguarda la temporaneità dell’architettura africana. In Europa costruiamo pensando che ciò che facciamo debba durare tra i 50 e i 100 anni. Nonostante questo continuiamo a demolire abbastanza spesso dopo vent’anni. Tutto ciò non è per niente sostenibile. Al contrario in Africa la gente costruisce per un periodo di tempo molto più breve. Forse solo per 15 anni o anche di meno. Solo una parte di una generazione, una parte di una vita. Tutto ciò è qualcosa che abbiamo dimenticato, o forse che non abbiamo mai conosciuto, in Europa. Qualcosa che penso valga la pena di studiare è come creare una casa o un ambiente di vita che non deve durare per 100 anni ma che è come un pezzo di stoffa che deve durare per 10, 15 anni.
Questi sono solo alcuni esempi di problemi e soluzioni che ho trovato durante il mio periodo di lavoro in Africa e che penso che valga la pena studiare per noi stessi.
Può fare un esempio di costruzione africana, un’interpretazione africana di casa o di spazio di vita? Mi riferisco a quando ha detto che nelle periferie delle città africane ha trovato molto spazio libero affinché i cittadini possano costruire le loro stesse case e il loro spazio di vita. Può fare un esempio?
Ci sono molti esempi da citare. Devo ammettere che finora non ho iniziato a studiare nell’ambito di una vera e propria ricerca, fotografando dei posti, delle case, e intervistando persone. Tuttavia un esempio interessante che è stato pubblicizzato recentemente riguarda la periferia di Città del Capo, in Sudafrica, dove le persone stanno usando materiali di seconda mano per costruire, il che è fondamentale in Africa.
Così hanno costruito case molto divertenti da ammirare, da guardare. Queste abitazioni hanno talmente tante decorazioni che un famoso fotografo ne ha fatto un book, promuovendo così questo tipo di architettura. Il libro si chiama Shack Chic. Si tratta dell’altra faccia della povertà. Le persone rispettano l’ambiente che li circonda e, anche se non hanno molti mezzi, da ciò che fanno si percepisce un certo ottimismo.
In quale paese sono state realizzate queste costruzioni?
In Sudafrica. Nella periferia di Città del Capo, Cape Flats. Kylie sites è un altro importante insediamento informale. Il libro di fotografie su quel quartiere s’intitola Shack Chic di Hugh (Craig) Frazer, se non mi sbaglio. Tutto ciò è molto interessante ma allo stesso tempo bisogna stare attenti perché quando si fotografano queste costruzioni, promuovendole come una sorta di conquista umana, non bisogna dimenticare che delle persone vivono in quelle case e che vivono ai margini dell’esistenza. C’è un risvolto un po’ amaro in questa vicenda.
Intervista di Piervincenzo Canale
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