Questa è la storia di Merhaui, 14 anni, eritreo. L’hanno trovato così, come vedete nella foto qui sopra scattata al Cairo nel luglio 2013.
Una banda di beduini l’aveva rapito in Sudan e tenuto otto mesi in catene, con poca acqua e quasi niente cibo. La prigione era un casolare nel Nord del Sinai egiziano.
Ce ne sarebbero molte altre di foto: centinaia di ostaggi che con il loro corpo documentano la tragedia della diaspora eritrea. Ma basta la pelle sottile e affamata di Merhaui a rappresentarli tutti.
Nelle altre immagini che non pubblichiamo, la carne scura di schiene, gambe, addomi è attraversata dalle ferite vive provocate dai sequestratori.
Picchiano gli ostaggi con spranghe di ferro rovente. Oppure rovesciano loro addosso colate di plastica fusa: bottiglie vuote, un po’ di benzina, un accendino, il nuovo strumento di tortura rimediato dagli scarti dei consumi quotidiani.
I sequestratori beduini rapiscono i giovani profughi eritrei, li trasferiscono nel Sinai che ormai è terra di nessuno e dopo mesi di prigionia permettono a ragazzi e ragazze di fare una telefonata ai genitori a casa o ai parenti già in Europa o in America.
È a questo punto che li torturano.
In modo che la famiglia o i fratelli e gli zii in esilio sentano le loro grida e comincino a raccogliere i soldi del riscatto. Dai tre agli ottomila dollari, più del costo del viaggio fino in Europa. Lo stesso accade lungo la rotta che attraverso il Sahara arriva in Italia. I sequestratori qui sono bande di predoni del Tibesti, al confine tra Libia e Ciad, passatori, contrabbandieri.
Ma soltanto le violenze lungo la via egiziana sono state documentate dalle fotografie: fin dai tempi in cui i torturatori erano gli agenti di polizia che imprigionavano gli eritrei con il silenzioso consenso di Israele, meta del loro viaggio. Esattamente come ha fatto per anni la Libia di Gheddafi con il silenzio della maggioranza degli italiani.
Nessun eritreo ora si incammina più verso il Sinai.
Allora sono i beduini ad andarli a prendere. Li sequestrano in Sudan, fuori dei campi profughi. Poi li trasferiscono via camion o via barca sulla penisola a Nord del mar Rosso. Con i soldi dei rapimenti, oltre all’aiuto finanziario dei palestinesi di Hamas e del Qatar, il Sinai sta diventando una roccaforte armata.
Questo raccontano le ultime testimonianze di quanti sono stati liberati. Merhaui è riuscito a scappare l’estate scorsa grazie all’aiuto di una rete di connazionali che negli ultimi anni ha messo in salvo e fatto ritornare nei campi in Sudan o in Etiopia più di mille eritrei. Tanti gli adolescenti e le giovani donne spesso con il seguito di figli nati dalle violenze sessuali di poliziotti e banditi.
Dovrebbe essere ormai chiaro a tutti che senza Isaias Akewerki e i suoi generali nessun eritreo, nessuna mamma, nessun bambino avrebbe bisogno di fuggire in Sudan, in Etiopia, di farsi sequestrare nel deserto o venire a morire sulle coste europee. Come è successo pochi giorni fa con i 363 morti annegati a Lampedusa e i 13 in Sicilia poche ore prima.
La diplomazia degli Stati riconosce Isaias Afewerki come il presidente dell’Eritrea. Ma l’antropologia, la criminologia e la coscienza di tutti i cittadini che si identificano nel valore della vita e della libertà, dovrebbero riconoscerlo come uno dei serial-killer più scientifici del nostro tempo. Va detto che da quando è presidente non risulta abbia mai ucciso nessuno personalmente. Ma il suo metodo è diabolico: con l’obbligo del servizio militare a vita, costringe i suoi concittadini alla fuga, alla povertà, li lascia ammazzare dai predoni, dal deserto, dal mare o semplicemente dai suoi soldati.
Un esempio è il trattamento riservato dall’esercito agli studenti della scuola italiana di Asmara.
Più sotto trovate la lettera lasciata in più fotocopie sul tavolo della sala professori da un ragazzo, nell’autunno 2005. Lo studente sperava che quegli insegnanti italiani strapagati per la loro missione all’estero rilanciassero il suo grido e mettessero in pratica quanto andavano insegnando sulla Resistenza, la Costituzione, l’Unione Europea.
Contava sulla storia di un Paese che si dice civile.
Ci ha sopravvalutati.
La lettera è stata tenuta nascosta per anni. Nessun direttore di istituto, nessun funzionario di ambasciata, nessun ministro degli Esteri italiano ha nel frattempo raccolto quella testimonianza di sangue e coraggio scritta da un liceale, che non si è firmato semplicemente perché altrimenti avrebbero ucciso anche lui.
I dittatori prosperano quando intorno a loro esiste un mondo di ignavi. Se ne trovano ovunque. Non soltanto nei rapporti diplomatici tra Italia ed Eritrea. Prendete il Lions Club. Quello di Sessa Aurunca Litorale Domitio, provincia di Caserta, nel dicembre 2011 ha invitato l’ambasciatore eritreo a Roma, Zemede Tekle, per il tradizionale pranzo natalizio: “Nella splendida location dell’hotel Kora Park di Formia, dalla quale gli ospiti hanno potuto ammirare uno stupendo panorama marino…”, esordiva la cronaca dell’incontro. E l’ambasciatore ha annunciato la nomina del presidente del Lions della Baia Domitia, Michele Fasulo, alla carica di console onorario dell’Eritrea. Fasulo non è uno qualunque. È anche il presidente della Banca di credito cooperativo del Garigliano, una delle più importanti al confine tra Campania e Lazio. Il Lions, le banche, le cooperative di credito, l’ambasciatore: console Fasulo? “Sì”, risponde lui al telefono.
Ma quando sente la domanda sui suoi rapporti con l’Eritrea si corregge. Dice che la carica di console “è una situazione che è ancora in itinere, non è ancora ufficiale la cosa, non è operativa” anche se è stata ufficialmente annunciata dall’ambasciatore quasi due anni fa.
Fasulo ammette comunque che tra i rappresentanti del regime eritreo e la sua banca ci siano attività in corso: “È una collaborazione”, spiega: “Diamo, diciamo, dei servizi”.
L’Italia ha un dovere storico nei confronti dell’Eritrea. Durante la Seconda guerra mondiale, gli eritrei hanno combattuto e sono morti al fianco degli italiani. E quando i nostri nonni sono sbarcati da quelle parti, non avevano nessun permesso di soggiorno. Soltanto il permesso delle armi. Cosa sia successo nelle altre due ex colonie italiane, la Somalia e la Libia, è cronaca di questi anni. Anche la Siria dimostra quanto possa essere feroce la ribellione a una dittatura sanguinaria. Ma in Eritrea, forse, c’è ancora tempo per evitare il peggio. Grazie a migliaia e migliaia di ragazzi e ragazze: invece di imbracciare le armi, hanno scelto la soluzione pacifica dell’esilio.
Questa la lettera trovata nel 2005 nella sala professori della scuola italiana ad Asmara, scritta per ricordare il massacro di studenti avvenuto un anno prima a Adi Abeito:
“Sono stato anch’io parte del gruppo protagonista
Battaglia tra due fratelli
In questa settimana sto ricordando una notte dolorosissima: la notte del 4 novembre dell’anno scorso. È passato già un anno da quella terribile notte. Anche se non sono bravo a scrivere in lingua straniera, però provo a dire qualcosa circa il nostro essere qua in Eritrea perché mi pare che il nostro mondo (la comunità internazionale) sappia poco di noi.
Giovedì 4 novembre 2004 è stata la prima volta che ho visto delle persone uccise cadere ai miei piedi. Fino a mezzogiorno per me era un giovedì normale come tutti gli altri giovedì. Alle dodici, finita la scuola, non vedevo l’ora di arrivare a casa perché avevo una fame da lupo… 100 metri prima di arrivarvi, mi vengono incontro tre soldati, uno con un bastone e agli altri due armati di pistola. Mi si è avvicinato uno e, dopo avermi chiesto il menqesaqesi (il tesserino per potersi muovere da un posto all’altro), me l’ha ritirato e lo ha tenuto con sé.
L’altro soldato mi ha indicato di raggiungere un gruppo di giovani. Avevano rastrellato altri giovani. Arrivati a una cinquantina, è venuto un camion e ci ha portati tutti quanti alla periferia di Asmara, vicino alla “scuola Bdho”, a sud-est della città. Non potevamo credere a quanto stava accadendo perché eravamo migliaia di giovani circondati da soldati ben armati e a distanza di 3 metri l’uno dall’altro. E noi eravamo dentro.
Nessuno poteva immaginare cosa sarebbe successo; forse neanche i soldati. Eravamo studenti con divise e cartelle nelle mani, maestri, gente che faceva il servizio militare in Asmara e, purtroppo, anche numerosi religiosi. Alle 5:30 del pomeriggio è arrivato un ordine che diceva “Mandateli ad Adiabeito”, una prigione per renitenti alla leva… Arrivati là, la prigione era già piena. Di fianco a essa c’erano dei campi recintati con mura di quattro metri di altezza e della grandezze di 70m x 60m come media. Ci hanno fatti entrare come le pecore.
Ogni persona aveva posto solo per i suoi due piedi e si stava diritti come un palo. Stipati come sardine in scatola, si sono riempiti cinque campi.
Era già sceso il buio.
Alle 7:00 di sera si sono sentite urla da tutte le parti accompagnate da una sassaiola diretta verso i soldati che erano seduti attorno sul muro. Alcuni di loro sono stati colpiti in fronte. Sono scesi dal muro e si sono messi dalla parte esterna della cinta. Abbiamo fatto piovere ancora dei sassi su quei soldati lanciando le pietre come il mortaio. E loro si sono messi a sparare.
Passata una mezz’oretta, gli altri gruppi hanno smesso di protestare. Anche il gruppo dove ero io ha smesso per un momento. In seguito solo il nostro gruppo ha fatto la storia, è stato il gruppo protagonista. Abbiamo fatto una pausa di dieci minuti per poterci organizzare.
Abbiamo bruciato delle gomme di automezzo che erano in un angolino.
Ancora abbiamo fatto piovere sassi sui soldati ed infine abbiamo spinto il muro tutti insieme fino a farlo cadere in pezzi grossi. Se anche non so di preciso quanti, però sono morti dei soldati che sparavano… Il fuoco continuava a bruciare. E ora quando vedo in TV qualcuno che brucia qualcosa, mi viene da pensare che hanno ragione. Quando è caduto il muro, sono scappati tantissimi giovani, soprattutto quelli che non avevano il menqeqaqesi. Tanti di questi sono morti uccisi dalle armi dei soldati; tanti altri sono stati feriti gravemente e, ovviamente, altri sono riusciti a scappare.
Verso le 9:00 sono arrivati centinaia di soldati per soffocare la protesta, accompagnati da tre carri armati. Prima hanno sparato per 5 minuti e poi sopra le nostre teste (la mattina abbiamo visto il muro che era dietro di noi bucato). Da quelli che erano davanti si sono levate le ultime voci di disperazione: una decina dei giovani erano morti. Presi dalla paura, scappando dai soldati, ad un quarto del campo abbiamo fatto dei mucchi di persone, una sopra l’altra; in alcuni erano poste fino quattro persone una sopra l’altra.
Ed è in questo momento che è morto ai miei piedi un ragazzino di 15 anni: aveva capelli lunghi e la complasione (la divisa del lavoro). Abbiamo tentato e ritentato di alzarlo ma non c’era nessuna speranza: era già andato, morto. E fino all’alba, per tutta la notte, è rimasto ai nostri piedi, anche perché abbiamo ricevuto duri ordini, che non dovevamo muoverci e tacere del tutto. La mattina, un amico di questo ragazzino, anche lui era con noi, ci spiega con tante lacrime: “La mattina va a lavorare e il pomeriggio a scuola. Va a lavorare mezza giornata per poter sfamare la sua famiglia (perché lui è il maggiore). Suo padre è al servizio militare già dal 1998″.
La mattina viene preso un Isuzu con targa E.D.F. (militare) e carica una quindicina di morti e tantissimi feriti. Perché, oltre ai colpi di arma da fuoco, tantissimi avevamo preso botte su naso, testa, mani, schiena… Quella mattina era normale vedere le proprie camicie sporcate di sangue, sangue proprio o del vicino.
Avevamo una fame da lupi ed eravamo tutti allo svenimento. Così uno a uno, la maggior parte è stata liberata. Ma siamo rimasti fino alla sera del venerdì senza mangiare né bere niente. Verso la fine della mattinata ho visto una cosa da non credere. Due giovani, uno armato e con i vestiti militari e l’altro segnato sulla camicia dal sangue della notte dolorosa: uno racconta all’altro quello che era accaduto durante la notte, ognuno dal proprio punto di vista. E alcune volte si scambiavano dei piccoli sorrisi… Erano fratelli che avevano combattuto l’uno contro l’altro la notte prima”.
Fonte: peacelink.it, http://gatti.blogautore.espresso.repubblica.it/