Gli interventi occidentali spiegano l’espansionismo islamista? Ipotesi errata.
Dopo i fatti di Parigi, molti hanno individuato la causa dell’offensiva jihadista in Europa nelle “guerre sbagliate” condotte dalle coalizioni euro-occidentali dopo 1’11 settembre 2001, quando al Qaida non rispose ad alcuna “aggressione”, ma colpì un paese che con i suoi alleati, tra cui l’Italia, era appena intervenuto in difesa dei musulmani kosovari.
Secondo questa interpretazione l’espansionismo islamista, dal punto di vista ideologico e militare, sarebbe un fenomeno sostanzialmente reattivo, un effetto di rimbalzo della pressione maldestramente esercitata sugli equilibri precari di alcuni stati – l’Iraq e la Libia, in primo luogo – soppiantando i regimi laici eredi del vecchio nazionalismo arabo e lasciando spazio alle vecchie e nuove inimicizie intra-islamiche, a partire da quella tra sunniti e sciiti.
Mi pare un’interpretazione semplificata e sostanzialmente erronea, che non dà conto di troppi fatti e ricostruisce in maniera sostanzialmente inversa l’ordine delle cause e degli effetti di quel processo di tribalizzazione politico-religiosa, di cui lo Stato islamico (Is) rappresenta la manifestazione più estrema e minacciosa. Che il mondo islamico, molti anni dopo l’11 settembre, non abbia ancora trovato un ordine compatibile con la stabilità internazionale e sia quasi ovunque infiltrato da componenti jihadiste, possiamo certo considerarla una sconfitta, ma non una colpa dell’occidente. Abbiamo fallito l’obiettivo che ci eravamo proposti, dobbiamo ripensare profondamente gli strumenti e le strategie di intervento (o di non intervento)? Ovviamente sì. Ma non possiamo per questo caricarci di un paralizzante senso di colpa quasi che, alla fine, i colpevoli della violenza fanatica non siano coloro che la praticano, la predicano, la finanziano o l’agevolano ma, in fondo, siamo noi con i nostri ingombranti alleati americani. Non è da questo senso di colpa che potranno venire le reazioni più meditate, collettive ed efficaci alla violenza barbara del jihadismo, comunque e ovunque declinato. L’islamismo politico non è l’incendio appiccato dalla scintilla dell’universalismo democratico, troppo confidente nella possibilità di una conversione forzata del mondo intero alle regole dello stato di diritto, ma un processo autonomo che si è affermato anche altrove, perfino per via democratica, come nell’Egitto dei Fratelli musulmani.
A voler essere fino in fondo coerenti, in questo contesto dovremmo anche considerare l’evoluzione della democrazia turca, che pure rimane un alleato imprescindibile dell’occidente e dell’Europa. Peraltro, se la logica del post hoc ergo propter hoc fosse applicata in modo altrettanto astratto non solo agli interventi, ma anche ai “non interventi”, non dovremmo forse concludere che l’espansione a oriente dell’Is sia il prodotto della neutralità occidentale rispetto alla guerra civile siriana? Non c’è solo una ragione storica, ma una più urgente ragione politica per non intrappolare l’Italia e l’Europa in una strategia pregiudizialmente astensionistica, fondata su un senso di colpa radicato nell’inconscio collettivo post coloniale, ma del tutto ingiustificato rispetto a quanto è successo dopo l’11 settembre. Dobbiamo fare ammenda dei fallimenti e degli errori – e in questo periodo ne sono certo stati commessi molti – ma non pensare che il rimedio alle minacce possa essere un neoisolazionismo che lasci il mondo arabo e islamico al suo destino. Anche perché quel destino, che lo si voglia o no, è anche il nostro.
Fonte: esteri.it