La collaborazione internazionale per la diffusione dell’antidoto al Covid sta funzionando, ma occorre promuovere pure una crescita equa e sostenibile per tutti
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Caro direttore,
questi giorni di festa e di bilanci di fine anno impongono riflessioni che desidero condividere attraverso “Avvenire” giornale, sempre sensibile ai destini del mondo. Mai come oggi, e in questo la pandemia ha avuto un ruolo fondamentale, si parla di “mondo” in senso inclusivo, soprattutto nella consapevolezza che esiste un destino comune, che il virus ha colpito il genere umano senza distinzioni, non conoscendo confini, né latitudini né longitudini. L’Unione Europea ha sviluppato con un percorso articolato, una strategia condivisa per ricostruire il futuro, e non dimentica i Paesi vulnerabili, che ormai giustamente definiamo “partner”.
Proprio noi italiani abbiamo lanciato l’Alleanza internazionale per la ricerca del vaccino contro il Covid-19 (annunciata dal ministro Di Maio nel marzo scorso) cui hanno aderito tante nazioni, e che viene attuata attraverso strumenti adottati dalla Ue come la Covax Facility co-gestita con il Cepi (Coalition for epidemic preparedness innovation) che faciliterà la distribuzione delle dosi in 92 Paesi partner. L’Italia contribuisce a finanziare il Cepi, ed è co-lead dell’ActAccelerator, una iniziativa globale lanciata ufficialmente ad aprile dal direttore generale dell’Oms e dalla presidente della Commissione europea, basata su tre pilastri: vaccini, diagnostica e terapia. Nelle ultime settimane la partecipazione alla Covax Facility si è particolarmente intensificata, con oltre 170 Paesi coinvolti, tra potenziali beneficiari e donatori, inclusi 80 Stati ad alto reddito. Ma in questo momento storico, alla fine di un anno che ci impone di fare un bilancio, ci dobbiamo chiedere se e quanto siamo “globali”.
Siamo globali, non v’è dubbio, nel nostro multilateralismo, che peraltro vogliamo più efficace, nel fatto che la Cooperazione allo sviluppo fa parte del Dna della società italiana, perché coinvolge migliaia di enti – dalle Organizzazioni di servizio civile al più piccolo Comune, alle Regioni, alle Province, a numerosi Ministeri, scuole, università, istituti di ricerca, enti filantropici e di volontariato e altri ancora – con un motore turbo di attività condotte da una vasta moltitudine di italiani coinvolti che veramente ci proiettano nel mondo permettendoci di partecipare con incisività allo sviluppo globale. Lo siamo con le nostre imprese, dalle micro alle piccole e medie alle giganti che operano ovunque, sul cui ruolo stiamo puntando moltissimo, come con il patto per l’export, veicolo di sviluppo. Lo siamo nei nostri intensi rapporti bilaterali in tutti i continenti, in cui ci chiedono sempre “più Italia”.
Nelle varie accezioni del termine globalizzazione di certo quella economica predomina. Le disuguaglianze che si sono acuite a causa della pandemia – ad esempio la difficoltà di accesso al cibo, le filiere alimentari interrotte e altro hanno aumentato il numero già enorme di persone a rischio di fame nel mondo – impongono non solo risposte urgenti da parte della politica, ma anche strutturali, per non tornare a quella “normalità” che ha contribuito a creare e a congelare nel tempo quelle stesse disuguaglianze, per fare un passo avanti. E nell’interesse delle generazioni future che dobbiamo rivedere le politiche, a partire certamente dal modo di gestire gli investimenti, l’ambiente, concepire lo sviluppo come percorso di vera sostenibilità. La presidenza italiana del G20 ci permetterà di riflettere su molti di questi aspetti, tra cui anche come concepire il rapporto con i Paesi partner a proposito della questione del debito.
La pandemia ha stimolato reazioni positive come l’accelerazione nella ricerca scientifica e la rivalutazione della ricerca di per sé, nonostante esista un movimento di pensiero che, ad esempio, si oppone alla ricerca sociale che è invece essenziale proprio per il conseguimento degli Obiettivi Sostenibili stabiliti dall’Agenda 2030. Le fragilità dei Paesi emerse con la pandemia hanno fatto comprendere che le attuali strategie non sono sostenibili, ed è la sostenibilità la vera sfida, e non solo nella fase post-Covid per la quale dobbiamo essere veramente preparati. Ho consultato numerosi studi su questo argomento, e da tutti emerge un elemento in comune, ovvero che la soluzione sta nella condivisione, e con orgoglio posso dire che la capacità di cooperazione vede l’Italia collocarsi tra i Paesi più virtuosi al mondo.
Siamo quindi globali? Lo siamo perché siamo attori attivi e propositivi nel mondo, eppure, caro direttore, sembra che in tutto questo grande fermento la nostra narrativa sia rimasta indietro. Nel linguaggio della quotidianità non sembra rientrare quanto dovrebbe, se non per gli addetti ai lavori o per gli interessati, la consapevolezza della necessità di uno sviluppo equo e condiviso. E questo perché non seguiamo da vicino le crisi politiche o i conflitti – decine ancora in corso di cui una ventina i principali – perché raramente ascoltiamo le voci dei protagonisti, perché le vicende dei Paesi di origine – quantomeno delle diaspore africane, asiatiche e altre presenti sullo stesso territorio europeo – nella gerarchia delle notizie non occupano i primi posti. Eppure sono l’informazione, la circolazione di idee, lo scambio verbale che cambiano il mondo. Oggi come ieri, la tendenza ad “alzare muri” viene ostacolata dalla circolazione di idee, dal sollecitare reazioni ad abusi e violazioni dei diritti umani. Siamo globali se consideriamo anche le ineguaglianze, le sofferenze, le lotte per la libertà, per la parità, lo sviluppo, parte del nostro patrimonio umano, approfondendo le cause, analizzando le possibili risposte per pone fine alle ingiustizie, parlandone.
Non si tratta solo di rispondere, come il nostro Paese lodevolmente fa, ai mali del mondo con politiche di aiuto, di negoziato di cui io peraltro sono spesso responsabile: si tratta di fare un ulteriore passo avanti, di trovare soluzioni strutturali a lungo termine. Nostra stella polare reale dovrebbe essere l’efficace conseguimento nei tempi, ovvero entro il 2030 (2063 per l’Africa) di tutti gli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’Onu, ovvero dell’unica soluzione strutturale che l’intera comunità internazionale si e data come obiettivo a lungo termine.
Dobbiamo dare risposte contemporanee alle sfide contemporanee. Se non lo faremo, e la storia ce lo impone, i nostri figli si troveranno di fronte a nuove divisioni, alla rottura dei sistemi normativi che fondano la nostra società e ci rendono liberi e cittadini veri, a disuguaglianze sempre più profonde con conseguenze politiche, sociali, economiche, ambientali nel mondo che impatteranno necessariamente anche sulle loro e nostre vite. Mai come oggi sappiamo che possiamo ridurre e prevenire i conflitti, garantire equità e sviluppo. Per essere globali, la narrativa si deve allargare dunque, far parte del linguaggio di tutti: “pensarsi globali” nel senso più alto in ogni azione quotidiana. Ringrazio “Avvenire”, caro direttore, per il grande impegno in questo senso, ma anche per voi la sfida resta: raggiungere tutti, ovunque, con il linguaggio globale che vi è, ci è proprio. Traccia indelebile nella mia vita hanno lasciato le parole di un adolescente Hausa, a Kaduna in Nigeria, il quale in un incontro con le vittime del conflitto locale – tutte con le loro orrende ferite da machete ben visibili sulla testa, nei moncherini delle braccia e altri orrori – mi chiese: «Ma io sto nel mondo, o il mio mondo è solo questo?». Mi piacerebbe poter rispondere a lui e a tanti e tante come lui, che si, caro Talatu, sei nel mondo.
Fonte: esteri.it