L’Italia è stata il paese che si è battuto di più a livello europeo a partire dal 2003 per ottenere la revoca dell’embargo imposto alla Libia dopo la strage di Lockerbie, commissionata da Gheddafi, come si apprende adesso dai documenti di Wikileaks.
Sotto la presidenza di Prodi l’Unione europea ha avviato alcuni contatti con le autorità libiche in vista della stipula di un accordo globale che avrebbe dovuto sancire l’avvicinamento definitivo all’area di libero scambio dell’Ue e il ruolo della Libia nell’esternalizzazione dei controlli di frontiera e nel blocco dei migranti diretti in Europa.
Anche se erano note a tutti le violazioni dei diritti umani e gli abusi praticati in quel paese ai danni dei migranti, come emergeva anche in un rapporto del 2005 a cura del Sisde sulla Libia, a firma del generale Mori.
Nello stesso periodo procedevano i rapporti per concludere intese bilaterali tra Italia e Libia per fermare i migranti, in gran parte potenziali richiedenti asilo, che da quel paese cercavano di raggiungere le coste italiane.
Nel dicembre 2007, dopo una missione di D’Alema a Tripoli nella primavera di quello stesso anno, il ministro Amato e il capo della polizia Manganelli firmavano i Protocolli operativi che avrebbero dovuto regolare la collaborazione tra le autorità di polizia italiane e quelle libiche nel blocco e nei successivi respingimenti dei migranti in fuga dalla Libia.
Per oltre un anno, tuttavia, quei protocolli restavano non attuati perché nel frattempo si verificava l’ennesimo cambio di governo e Gheddafi rialzava la posta, esigendo in cambio del suo impegno contro le emigrazioni clandestine un Trattato di amicizia di carattere globale, che riconoscesse la responsabilità dell’Italia per l’occupazione coloniale della Libia e un congruo risarcimento che ammontava a diversi miliardi di dollari.
Nel frattempo un giro vorticoso di affari e commesse, anche militari, legava sempre più l’Italia alla Libia.
Il 30 agosto 2008, proprio a Bengasi, Gheddafi e Berlusconi firmavano il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra Italia e Libia, nel quale si prevedeva, tra l’altro, l’investimento in Libia di 5 miliardi di dollari provenienti dall’erario italiano attraverso la realizzazione di opere pubbliche, e la collaborazione della Libia con l’Italia nella lotta all’immigrazione clandestina.
In questo accordo non si prevedeva alcun impegno da parte della Libia alla ratifica e al rispetto della Convenzione Onu sui rifugiati del 1953, né si riconosceva all’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati la possibilità di monitorare e accogliere le richieste di protezione da parte dei migranti provenienti in Libia da paesi colpiti da conflitti armati o crisi umanitarie.
Nel Trattato di amicizia all’articolo 3 si prevedeva che «le Parti si impegnano a non ricorrere alla minaccia o all’impiego della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica dell’altra Parte o a qualunque altra forma incompatibile con la Carta delle Nazioni unite».
E all’articolo 4 si aggiungeva il principio di «non ingerenza negli affari interni», con le previsioni che: «le parti si astengono da qualunque forma di ingerenza diretta o indiretta negli affari interni o esterni che rientrino nella giurisdizione dell’altra Parte, attenendosi allo spirito di buon vicinato».
E ancora: «Nel rispetto dei principi della legalità internazionale, l’Italia non userà, ne permetterà l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro la Libia e la Libia non userà, né permetterà, l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro l’Italia».
Nel successivo articolo 5 lo stesso trattato affermava il principio della «soluzione pacifica delle controversie», in quanto «in uno spirito conforme alle motivazioni che hanno portato alla stipula del presente Trattato di Amicizia, Partenariato e Cooperazione, le Parti definiscono in modo pacifico le controversie che potrebbero insorgere tra di loro, favorendo l’adozione di soluzioni giuste ed eque, in modo da non pregiudicare la pace e la sicurezza regionale ed, internazionale».
Non si comprende come oggi nessuno senta la necessità di ricordare questi impegni, e nel quadro della risoluzione dell’ONU sulla no-fly zone per impedire altri massacri di civili, l’atteggiamento interventista e bellicista del governo italiano, dopo i ritardi iniziali e le dichiarazioni a favore di Gheddafi, rischia di aggiungere danno a danno.
Ed è singolare come sia stata proprio l’Italia il principale fornitore di armamenti in favore della Libia. Per questa ragione l’Italia farebbe bene a mantenersi neutrale durante l’auspicato intervento militare per impedire a Gheddafi di infierire ancora sulla popolazione civile.
Il 4 febraio 2009, all’indomani della ratifica del Trattato di Amicizia Italia – Libia da parte del parlamento italiano, ratifica adottata a larga maggioranza con il voto favorevole del maggior partito di opposizione, il ministro dell’interno, Roberto Maroni, si recava Tripoli per incontrare il ministro dell’interno libico, Abdulfatah Yunes El Abdei, e sottoscrivere il Protocollo di attuazione dell’accordo che prevede, tra l’altro, il contrasto dell’immigrazione clandestina attraverso il pattugliamento congiunto delle coste dell’Italia e della Libia.
Per tutto il 2009 l’Italia applicava la politica dei respingimenti collettivi in acque internazionali, e per il più clamoroso di questi interventi, risalente al 7 maggio 2009 e documentato da immagini inconfutabili trasmesse dalla Rai, veniva denunciata alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Il 22 giugno del 2011 la Grande Camera della Corte di Strasburgo si occuperà del caso.
Il 16 febbraio 2010, a Gaeta, l’Italia consegnava alla Libia tre motovedette della Guardia di Finanza per il pattugliamento delle acque del Mediterraneo, che si aggiungevano alle altre tre consegnate nel maggio 2009.
Il ministro Roberto Maroni, presente alla cerimonia di consegna, ribadiva che «il contrasto all’immigrazione illegale ed alla criminalità organizzata che gestisce il traffico di uomini è l’obiettivo primario per Italia e Libia», ricordando che i frutti della fase operativa della collaborazione tra i due Paesi avviata nella scorsa primavera hanno superato «ogni più rosea aspettativa»: 90 per cento in meno di sbarchi sulle coste italiane, risultato che rende «impraticabile una rotta redditizia per i trafficanti di uomini».
A partire da quella data, per tutto il 2010 i respingimenti anche in acque internazionali venivano effettuati direttamente dalle motovedette italo-libiche sulle quali erano imbarcati militari italiani della Guardia di Finanza.
In un caso una di quelle motovedette apriva il fuoco su un motopesca di Mazara del Vallo impegnato a raccogliere le reti.
Un caso sul quale dopo pochi giorni calava la cortina del silenzio, con la rassicurazione fornita da Gheddafi che avrebbe punito i responsabili di quel tentativo di omicidio.
Intanto il 12 novembre 2010 la Libia respingeva a Ginevra le raccomandazioni, formulate in ambito di esame Onu, di adottare una legislazione sull’asilo e di firmare un’intesa sulla presenza dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati [Unhcr] nel Paese.
Tripoli ha respinto tra l’altro anche la raccomandazione di abolire la pena di morte e di garantire l’uguaglianza delle donne davanti alla legge e nei fatti.
Le raccomandazioni su asilo e Unhcr erano state formulate all’Onu da Paesi quali gli Stati uniti ed il Canada nell’ambito dell’Esame periodico universale della situazione dei diritti umani in Libia, nei giorni scorsi a Ginevra. Tripoli ha anche rifiutato la raccomandazione di abolire la pena di morte, ma ha al tempo stesso rinviato la propria risposta alla richiesta di adottare una moratoria sulle esecuzioni in vista dell’abolizione della pena capitale. L’8 giugno 2010 la Libia aveva annunciato la chiusura dell’ufficio dell’Unhcr a Tripoli, successivamente la presenza dell’Unhcr è stata accettata ma solo per occuparsi dei casi pregressi.
Dopo quella data le trattative tra l’Ue e la Libia hanno subito un brusco rallentamento, ma neppure questa circostanza induceva il governo italiano a rivedere i suoi rapporti di collaborazione con Gheddafi, malgrado fossero note le gravi violazioni dei diritti umani delle quali il regime era responsabile nei confronti dei migranti in transito in quel paese, soprattutto se di fede cristiana, come gli eritrei, e nei confronti degli oppositori politici e dei giornalisti.
E ancora oggi, malgrado il ritiro del nostro ambasciatore da Tripoli il Trattato di amicizia tra Italia e Libia è solo sospeso, e sembra che si voglia ripristinarlo non appena in quel paese si affermino nuove autorità statali.
Una previsione che appare utopica, come doveva apparire utopica l’aspirazione a bloccare i flussi di immigrazione irregolare appoggiandosi su un dittatore sanguinario come Gheddafi.
Dopo lo scoppio delle insurrezioni popolari nei paesi del Nordafrica l’Italia ha mantenuto una posizione sostanzialmente attendista annunciando interventi umanitari ai confini tra Libia e Tunisia, interventi che nessuno ha visto concretizzarsi in quel campo di accoglienza per diecimila persone che era stato annunciato.
Nel frattempo le scelte del governo italiano, tra allarmi di «invasioni bibliche» e tentativi di nascondere l’inconsistenza del sistema di accoglienza dei richiedenti asilo, hanno reso insostenibile la situazione a Lampedusa, e stanno dimostrando come, di fronte a una emergenza umanitaria, ancora una volta il governo Berlusconi sia capace soltanto di inviare reparti militari in missione di ordine pubblico e trattare la materia dei cosiddetti sbarchi, in realtà salvataggi in alto mare, con i consunti strumenti della «lotta all’immigrazione clandestina».
Insomma una accoglienza dietro le sbarre o sotto la sorveglianza di pattuglioni di polizia in assetto antisommossa.
Fonte: Fulvio Vassallo Paleologo su Carta Online