Che influenza avrà l’intervento militare in Libia sul corso della rivolta araba?
L’intervento occidentale in Libia aggiunge non solo un ulteriore elemento di incertezza sul futuro della crisi libica ma anche sugli scenari della rivolta araba nel suo complesso.
Accanto all’esistenza di fattori strutturali che hanno portato alla rivolta – quali il mutamento dei vincoli strategici, l’esplosione delle opportunità d’informazione e interazione, la recessione economica che ha esasperato la crisi di legittimità dei regimi autoritari ecc. – ci si può chiedere quale ruolo possa giocare questo intervento esterno. L’azione militare potrà alimentare o inibire la rivolta?
In tal senso l’opportunità dell’operazione Odyssey Dawn sembra dividere profondamente gli analisti. Da una parte c’è chi percepisce la dinamica del “contagio” come sufficiente nel lungo periodo a influenzare positivamente gli sviluppi dei regimi non democratici e, quindi, reputa controproducente l’intervento armato. All’estremo opposto, c’è chi vede nell’ipotesi del “controllo” esterno una variabile inevitabile in questa circostanza. L’intervento della comunità internazionale per imporre con la forza il cambio di regime attraverso un’operazione militare servirebbe, oltre che a proteggere la popolazione, a dare speranza di successo regionale a tutta la rivolta araba.
Massimo Campanini (docente dell’Università “L’Orientale” di Napoli): “Sono convinto del fatto che questo intervento alla lunga sia più controproducente che favorevole alla rivolta araba nel suo complesso. Una cosa è impedire a Gheddafi di bombardare, riconquistare le città e bersagliare i civili, altra – e ben differente – è quella di una coalizione che bombarda a sua volta, quasi indiscriminatamente. Questa operazione non favorisce la rivolta ed è probabile verrà percepita dal mondo arabo come l’ennesima invasione o intrusione esterna andando ad alimentare la retorica anti-occidentale. Si ritorna alla possibilità di essere sospettati di atteggiamenti neo-coloniali, di essere interessati in realtà più al petrolio che al successo della rivolta. Già si possono notare accuse di voler smembrare la Libia in Cirenaica e Tripolitania, favorendo un progetto che guarderebbe ad un più facile controllo territoriale da parte dell’Occidente. In pratica si potrà facilmente pensare che appena c’è un problema nel mondo arabo noi occidentali torniamo a sparare. Abbiamo visto come è già mutato l’atteggiamento della Lega Araba, dall’iniziale favore a una posizione più negativa proporzionale all’intensificazione dell’intervento armato”.
Valeria Talbot (research fellow ISPI, Osservatorio Mediterraneo e Medio Oriente): “Sulle reazioni del mondo arabo all’intervento occidentale in Libia possono prospettarsi due scenari. Fermo restando il fatto che gli europei non potevano rimanere a guardare di fronte allo scoppio di una guerra civile nel proprio vicinato, ci si chiede se altri strumenti non avrebbero potuto essere esperiti prima di passare all’intervento militare. Da un lato, se la crisi libica dovesse protrarsi a lungo, non è escluso che questa possa avere un impatto negativo sull’opinione pubblica araba che vedrebbe l’intervento come una inammissibile, e inefficace, ingerenza esterna. Dall’altro, una soluzione in tempi brevi potrebbe avere più chance di farlo percepire come risolutivo e, alla fine, necessario. In questo senso è importante anche la partecipazione di forze di paesi arabi alla gestione della crisi. Proprio oggi Emirati Arabi Uniti e Qatar si sono impegnati all’invio di aerei per il rispetto della no-fly zone. Al di là di ciò, le rivolte nel mondo arabo sembrano fare il loro corso, come dimostra il caso Siria, a prescindere da ciò che sta accadendo in questi giorni in Libia. Resta il dubbio su come reagirà la comunità internazionale, e in particolare gli alleati della NATO, se la Siria dovesse trasformarsi in una “nuova Libia”.
Gideon Rachman (editorialista Financial Times): “L’intervento militare sancito dalle Nazioni Unite può dare speranze alla rivolta. Se Gheddafi avesse potuto schiacciare la rivolta indisturbato, il suo comportamento avrebbe inviato un potente messaggio agli altri tiranni del Medio Oriente: “La violenza paga”. In Yemen, in Siria, in Bahrain, altri dittatori avrebbero concluso che, se fossero stati pronti a seguire l’esempio di Gheddafi, utilizzando la forza più bruta contro il proprio popolo, essi avrebbero potuto mantenere il potere. La vittoria di Gheddafi, in altre parole, avrebbe potuto bloccare o perlomeno rallentare la “primavera araba” che sta cambiando il Medio Oriente: la speranza – sebbene ancora lontana dal concretizzarsi – di libertà e democrazia in una regione del mondo che non le ha mai conosciute. Che è anche la speranza dell’Occidente di smentire i predicatori del “conflitto di civiltà”, e di contenere (e gradualmente sconfiggere) il terrorismo di matrice islamica”.
(FT, 21 marzo 2011)