Gordana tira fuori da un borsello una cartina dell’India. Quando la vedi sulla mappa capisci perché sarà una delle potenze del futuro. La mia amica indica un punto nella zona che confina con il Tibet e con il Bangladesh. “Vado qui”, mi dice.
Gordana va lì per studiare urdu, per schiarirsi le idee e prepararsi all’emigrazione. Nonostante il nome esotico, Gordana è italianissima. Ha un ottimo curriculum, parla diverse lingue ma in Italia nessuno le dà lavoro. Al massimo uno stage non retribuito. Ma, superati i trenta, gli stage sono un’offesa. Il suo obiettivo è l’Australia. “Lì si lavora bene e non sei costretto a vivere a metà”, dice.
Gordana, come tanti italiani che conosco, è malata di /buufis/. In italiano questa parola non esiste. È stata inventata in Somalia. Nel dizionario somalo-italiano la parola /buufis/ è tradotta con “gonfiare”. Si usava infatti per i palloncini delle feste o per le gomme delle auto. Ma con l’inizio della guerra ha cambiato significato. In un sistema illiberale come quello somalo l’unica cosa che resta è il sogno. Si sogna la fuga, il viaggio, una nuova vita all’estero. Il sogno ti si gonfia dentro, si trasforma prima in ossessione, poi in malattia.
Questo sentimento che si gonfia è il /buufis/. Colpisce i somali in Somalia, quelli che vivono nei campi profughi in Kenya e oggi anche molti miei amici italiani. Ho chiesto di questa parola ad alcuni ragazzi richiedenti asilo, che mi hanno dato varie definizioni. “È il sentimento-desiderio di andare in Europa. Qualcosa che ti cresce dentro. È difficile da spiegare. Come l’amore”. “Purtroppo finché ci sarà un disagio, ci sarà il /buufis/”. “Molti si ammalano. Qualcuno che non è riuscito a partire si è suicidato, qualcuno è impazzito”.
Un proverbio somalo dice: “Se un bimbo non ha labbra e la madre non ha seni, cosa e da dove succhierà?”. I somali di oggi vivono in questa situazione. La Somalia ha un seno sterile, privo di latte. E comunque nessuno saprebbe come prenderlo.
/Igiaba Scego/