Vite senza permesso di Manuela Foschi è una raccolta di quattordici interviste ad altrettanti stranieri presenti sul territorio italiano. Il sottotitolo del libro, “interviste ad ambulanti immigrati”, precisa meglio lo sguardo verso cui l’autrice ha rivolto il suo interesse: non verso badanti o lavoratori nelle campagne o nell’industria, ma verso i “vu cumprà”.
E’ una storia nelle storie quella che viene raccontata attraverso le quattordici interviste. Tutti i protagonisti del libro, infatti, sono accomunati da una stessa storia di sofferenze, di dignità della persona calpestata, di degrado, perché costretti a nascondersi, a dormire nelle stazioni o in edifici abbandonati o in tanti in una singola stanza.
Difficoltà, disagi, paure, intolleranze, tutto questo accomuna i protagonisti del libro: difficoltà, che i migranti devono affrontare nel nostro paese, per il rinnovo del permesso di soggiorno, per i ricongiungimenti familiari, per la casa, per il lavoro; disagi vissuti durante i controlli delle forze dell’ordine e di paura di essere internati nei Centri di permanenza temporanea, i cosiddetti Cpt, di fatto carceri di detenzione permanente; ma anche di paure provocate dai nostri comportamenti: “La prima volta che ho cercato di parlare con un italiano ho avuto paura. Ero a Milano e ho chiesto dov’era la stazione. Questa persona, appena ho aperto bocca e ha sentito la mia pronuncia, ha alzato le braccia puntandomele contro e mi ha gridato: ‘Stai lontano'”.
E’ la storia di veri e propri pesi messi sulle loro spalle per scoraggiare l’immigrazione, di leggi che non favoriscono l’integrazione. Bass, proveniente da Dakar e arrivato in Italia nel ’92, racconta dei disagi tremendi creati con il nuovo decreto attuativo nel 2005, dei tanti soldi necessari per ogni rinnovo, dei tempi di attesa triplicati, dell’ingiusta forma di criminalizzazione che viene operata dai media che parlano d’insicurezza nelle città dovuta alla presenza degli stranieri.
E’ anche la storia di diffidenze, intolleranze e discriminazioni nostre, di noi italiani, nei confronti degli stranieri. Rama, senegalese che vive e lavora a Brescia, dice: “Fino a qualche anno fa si stava bene, ora è difficile vivere. C’era più serenità, non la cattiveria di adesso. C’è tanta intolleranza a Brescia. Tanta davvero. Mi dicono: ‘Brutta nera vattene da qui’. Gli italiani non sono tutti così, ci sono anche quelli buoni”.
Ciò che maggiormente ferisce Rama sono le discriminazioni che subiscono i suoi figli ogni giorno a scuola. I suoi figli non li fa uscire di casa, dopo la scuola, perché teme che vengano offesi e perché nessuno degli italiani fa giocare i propri figli con quelli degli immigrati.
Questa storia identica, per difficoltà, disagi, intolleranza, sfocia, però, nel corso del racconto, in storie personali diverse, perché tutti, da venditori ambulanti clandestini per anni, sono diventati oggi alcuni commercianti, altri operai, facchini, imbianchini, muratori, sindacalisti, altri ancora mediatori e mediatrici culturali ed altri, infine, attori e scrittori.
Inoltre, i protagonisti del libro aiutano a conoscere culture e ideali di altre parti del mondo. Sfatano tanti luoghi comuni sugli stranieri e sui loro paesi.
Colpisce il coraggio che mostrano di fronte a tutte le difficoltà che incontrano. Non si arrendono, anche se la tentazione di mollare tutto e di ritornare al paese d’origine è forte all’inizio.
Alla fine, tuttavia, non si lasciano vincere da questa tentazione perché sarebbe una sconfitta agli occhi dei parenti che hanno lasciato e ai quali mandano buona parte dei loro guadagni.
Colpisce la generosità con la quale aiutano non solo i loro parenti più stretti, ma anche i loro “compaesani“, la loro terra, perché con le loro rimesse vengano costruiti pozzi, ospedali, orfanotrofi.
Si rimane sorpresi piacevolmente di fronte allo spirito d’iniziativa che manifestano, all’intraprendenza e alla determinazione con cui portano avanti i loro progetti: tra di loro c’è chi fa politica, in un coordinamento di Bologna o in un comitato a Napoli, con analisi approfondite e controcorrente.
Si rimane anche amaramente sorpresi dal fatto che molti di loro consigliano ai loro connazionali, rimasti nella propria terra, di non venire in Italia “perché qui c’è gente cattiva“.
“Vite senza permesso” è un libro di storie di migranti, i quali, chi più, chi meno, sono riusciti a inserirsi. Manca, però, la voce di chi non ce l’ha fatta, di chi è finito male tra le maglie della malavita. L’augurio è che a questo ne seguirà un altro.
“Vite senza permesso” va letto intanto perché esistono pochissime ricerche sui “vucumprà” e quello che si conosce su di loro viene da quotidiani o da tuttologi di turno che hanno sempre qualcosa da dire sugli ambulanti, spesso senza aver parlato con loro.
Inoltre il merito di Manuela Foschi è quello di avere lasciato parlare gli stranieri, di avere raccolto le loro storie cercando d’intervenire il meno possibile, e, quindi, di conoscere il punto di vista degli stranieri sulla loro situazione in Italia e sugli italiani.
Un altro merito è quello di riscoprire valori dimenticati o trascurati quali l’amicizia, il rispetto per uomini e donne e per la natura, la socialità, la condivisione.