“In Africa non vi tratteremo così”

rosarno05.jpgEmmanuel Appiah della Liberia, Adjli Amoako e Habib Sag del Ghana. Sono loro i feriti, le vittime di una Rosarno (RC) che al volto dell’ospitalità calabrese e di un calore umano che non conosce pari in Italia, affianca quello di una brutalità estrema.

Adjli Amoako e Habib Sag sono stati feriti il 13 dicembre scorso da colpi di pistola sparati da un auto mentre camminavano lungo una strada di Rosarno. Emmanuel Appiah si è fratturato una gamba. Un suo amico ci ha detto che scappava dopo che una pattuglia di carabinieri aveva sparato in aria alcuni colpi di pistola nel tentativo di fermare il gruppo di persone con le quali si trovava.

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Sono loro gli africani che nella stagione invernale lavorano nei campi assicurando che frutta e verdura arrivino sui mercati di tutta Europa. Quella stessa Europa che mette alla berlina gli ultimi del pianeta, gli esclusi da qualsiasi tipo di progresso. Quell’Europa che è allo stesso tempo un’opportunità e una galera.

Africanews.it ha visitato l’ex cartiera di Rosarno il 18 dicembre scorso. Ne scrive solo adesso a causa di problemi tecnici.

Appena arrivati nella città calabrese nessuno sapeva indicarci la strada per l’ex cartiera. Nessuno eccetto gli africani che abbiamo incontrato lungo la strada. Dopo un’iniziale diffidenza, ci hanno detto di essere contenti che qualcuno parli di loro. “Non capita tutti i giorni”, ha detto il più anziano dei tre nigeriani che abbiamo incontrato. “In fondo a quella strada svoltate a destra. Troverete un cancello aperto sulla sinistra. Entrate e chiedete dei ghanesi. Sono loro che sono stati colpiti. Se vi vorranno parlare, vi diranno tutto ciò che possono dirvi”. “In che senso”, chiediamo. “Alcuni di loro non si faranno fotografare e non vorranno essere ripresi dalle telecamere. E’ per la sicurezza“.

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Percorriamo quella strada che in qualche centinaia di metri ci fa uscire da Rosarno per entrare nelle campagne che la dividono da San Ferdinando e Gioia Tauro.

Incontriamo Kissi Kouadio, 35 anni, cittadino della Costa d’Avorio. Vive in Italia da circa 7 anni. Ha lavorato per quasi due anni alla Iveco in una fabbrica del nord. “Poi mi hanno licenziato senza neanche dirmi perché. Ho cercato un avvocato che mi potesse difendere. Nessuno è stato disposto ad aiutarmi neanche quando potevo pagarlo.”

Appena arrivati, la ex cartiera di Rosarno sembra un posto irreale. Un casermone grigio fatto di cemento armato, forse anche più grande di un campo di calcio, circondato da ulteriore cemento armato e piccoli cumuli di spazzatura sparsi qua e là. Vicino ai mucchi di immondizia spesso cucinano questi cittadini africani ai quali, nonostante il duro lavoro nei campi, non è stata data loro neanche la speranza di un alloggio e standard sanitari minimi.

rosarno02.jpgKissi ci accompagna dentro la ex cartiera. Le condizioni di vita, o per meglio dire di sopravvivenza, superano ogni più pessimistica previsione. Si mangia affianco dell’immondizia, si dorme in locali senza ricambio d’aria e senza riscaldamento. La cosa più grave è che spesso manca l’acqua e quando c’è, è comunque scarsissima dove è più necessaria, cioè nei bagni.

“Per tre giorni siamo rimasti senza acqua – dice Kissi – ora c’è ma è poca e non basta per pulire le latrine”.

Nell’ex cartiera c’era anche l’elettricità fino a quando la fabbrica era funzionante ovviamente. Adesso sono rimaste le lampadine. Ovviamente senza corrente elettrica non servono a niente. Lo stesso vale per gli scaldabagni e il riscaldamento che in questa parte di mondo “sviluppato”, che a noi sembra paragonabile all’inferno, vuol dire accendersi un fuoco con qualche pezzo di legno.

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Usciamo dalla cartiera e Kissi ci prega di far sapere in che condizioni sopravvivono i cittadini africani che lavorano in Italia. Nel frattempo si avvicinano altri suoi amici. Nelle loro lingue ci dicono, tramite Kissi, che a loro non importa più dell’Italia, dell’Europa e dei paesi “sviluppati” perché a casa loro si vive molto meglio.

“Venite in Ghana – aggiunge uno di loro – e non sarete mai trattati come noi siamo trattati qui”.

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