Congo: rompere l’indifferenza su un genocidio

Pascal Nshombo Kataraka è membro attivo della società civile della Repubblica Democratica del Congo (RdC). Da alcuni anni, per motivi di lavoro e d’amicizia, è in contatto con alcune persone, gruppi, cooperative e comunità del vicentino. Nel 2006 è stato relatore al convegno VicenzaMondo presentando una relazione sulle problematiche dell’acqua nel continente africano.

La sua presenza in Italia, per ultimare gli studi di specializzazione in Scienze sociali, che sta svolgendo a Roma presso la PUST (www.pust.edu), e l’aggravarsi della drammatica situazione del nord-Kivu in RdC ci offrono l’occasione per ascoltare una “voce” direttamente legata alla questione.

Quella che segue è un’intervista di Francesco Maule.

Nshombo Kataraka può delinearci a grandi linee lo scenario dei conflitti e le cause del caos in cui regna la regione dei Grandi Laghi?
L’Africa subsahariana è un focolaio di episodi bellici in generale, ma la regione dei Grandi Laghi (Kivu, Tanganyika, Victoria, Edouard, Albert) lo è in modo particolare.

Tale zona ha una configurazione geopolitica composta di sei paesi (Ruanda, Burundi, Congo (ex-Zaire), Tanzania, Kenya, Uganda). Storicamente questa regione è stata teatro di conflitti armati già nel XIX secolo.

Conflitti a due livelli: primo per rivalità tra gli stati sul controllo delle zone agricole e delle risorse (sale, ferro), secondo motivo per il controllo e l’accesso alle vie commerciali. Dopo l’euforia per  aver raggiunto l’indipendenza formale verso gli anni ’60 del secolo scorso, si è verificata una crisi degli stati africani che si sono trovati “strangolati” dalle istituzioni finanziarie internazionali (FMI, Banca mondiale).

L’eliminazione della leadership nazionalista (Patrice Lumumba, nel caso del Congo) e il deficit della legittimità del potere politico (la cultura dei colpi di stato) sono altri elementi negativi che hanno minato le fondamenta istituzionali.

Tutto ciò ha provocato conseguentemente l’aumento delle frustrazioni da parte delle popolazioni. Anche oggi è ancora ben salda una forma di “militarizzazione” del potere politico: infatti la maggiore parte dei capi africani della regione dei Grandi Laghi sono soldati, generali, o ex capi ribelli. Tanti di questi sono appoggiati dai paesi ex-colonizzatori.

Emerge inoltre anche la componente etnica come modalità di accesso al potere (esempi: Ruanda, Burundi). Questa modalità, ancora legata alla eredità coloniale belga di acculturare e privilegiare alcune etnie in vista dell’amministrazione del paese, espone però la popolazione civile a tanti rischi, fino alla estrema e tragica vicenda del genocidio interuandese e burundese.

La successiva fuga della popolazione civile e i gruppi armati sfollati nei paesi vicini, avvenuta negli scorsi anni, non ha aiutato la costruzione di una situazione di pace. I gruppi armati uccidono, violentano, saccheggiano la popolazione civile.

Nell’analizzare dunque questa situazione di conflittualità armata emergono meccanismi e logiche endogeni ed esogeni. Ecco il panorama della situazione caotica della regione dei grandi Laghi e le sue negative conseguenze sociali, ecologiche ed umanitarie.

Può aggiornarci sulla situazione attuale delle violenze descrivendoci il caso del Nord Kivu?
Innanzi tutto bisogna tener conto di una estrema complessità nelle cause degli episodi bellici nel Nord Kivu del Congo, riprese il 28 agosto 2008, e le sue implicazioni in tutta la regione dei Grandi Laghi. Le ragioni sono molteplici: soprattutto politiche ed economiche ma anche geo-strategiche.

  1. La debolezza ed impotenza delle istituzioni dello Stato di Kinshasa a mantenere la sicurezza su tutto il suo territorio nel senso pieno del termine.
  2. Uno Stato senza una minima responsabilità etico – sociale e senza un senso di ridistribuzione delle ricchezze nazionali; uno Stato manipolato dai paesi ex-colonizzatori, che vogliono conservare il controllo dei propri interessi mantenendo alla gerarchia di questi Stati i dispotici.
  3. A livello economico la ricerca e depredazione delle risorse minerarie è la priorità assoluta delle multinazionali e delle compagnie transnazionali. Esse finanziano le ribellioni (indebolendo cosi lo Stato) fornendo gli armamenti in cambio dello sfruttamento sistematico delle risorse: uranio, coltano, rame, diamanti, oro, legname, ecc. In questa situazione la diplomazia non ha funzionato, o le è stato impedito di funzionare.

Perché il preservarsi di una situazione così instabile in cui la democrazia e le istituzioni faticano ad affermarsi?
La molteplicità di queste guerre emerge da sistemi strutturali conformatisi in modo distorto già dopo l’euforia dell’indipendenza.

L’invisibilità del diritto come fondamento dello stato moderno e la scarsità istituzionale “scavata” dalla corruzione onnipresente sono cause remote. A questi elementi già di per sé estremamente destabilizzanti si sono aggiunti recentemente ulteriori elementi di complessità e gravità nel controllo del potere: la “politica del ventre” e la manipolazione etnica (caso di Ruanda e Burundi), la presenza delle multinazionali con risorse finanziarie ingenti e in azione in modo incontrollato e incontrollabile.

Il caso particolare del Nord Kivu, in quanto riguarda la ricerca di dominio e controllo dei giacimenti di coltan, si staglia per la crudeltà dello spargimento di sangue e le violenze. Conseguenza: morti, profughi, orfani che vagano per città e campagne, bambini soldato, donne violentate esposte all’AIDS (arma batteriologica).

Si osserva anche la carestia (arma alimentare) usata come strategia bellica. Si vede anche la distruzione della biodiversità: sfruttamento della fauna e delle riserve naturali (distruzione di uno dei più importanti patrimoni forestali mondiali) e massacri degli animali selvaggi. Insomma, si può evidentemente parlare di un genocidio dimenticato dalla comunità europea e dalla comunità internazionale.

Anche il Papa ha parlato della gravità della situazione, denunciando soprattutto gli abusi sui bambini e sulle donne; una guerra, quindi, dove ancora una volta sono i più deboli a pagare il prezzo più alto?
Si, il Pontefice esprime cosi la sua preoccupazione e commozione sulla situazione umanitaria catastrofica: un olocausto! Infatti nel suo appello all’Angelus del 12 ottobre 2008 Benedetto XVI faceva già riferimento alla riconciliazione: “Vi invito a pregare per la riconciliazione e per la pace in alcune situazioni che provocano allarme e sofferenze: penso alle popolazione del Nord Kivu, nella R.D. Congo”.

In questa linea e nello spirito di appello alla pace, la Conferenza episcopale del Congo (CENCO), nel suo messaggio dopo l’incontro svoltosi a Kinshasa dal 10 al 13 novembre 2008, denuncia “il genocidio silenzioso e il lassismo della comunità internazionale”.

É purtroppo vero che la guerra, oltre che implicazioni a livello politico, economico, commerciale, strategico ha una dimensione tragicamente anche “ludica”: l’esercito della ribellione gode usando le donne e i bambini come arma strategica di guerra. Purtroppo questo esercito inocula l’AIDS e altre malattie sessualmente trasmissibili. Ecco perché il Sommo Pontefice parla degli abusi sulla popolazione vulnerabile: donne e bambini.

Ma il Pontefice, essendo autorità morale, può incitare una mediazione fra i suoi figli dispersi? La maggioranza della popolazione di questa regione dei Grandi Laghi è cristiana e per lo più cattolica.
La mediazione e la diplomazia dell’ONU non sta dando delle risposte significative alla situazione bellica in corso. Storicamente la Santa Sede si è già impegnata nel campo della diplomazia, con successo. Ma la realtà del Congo non pare essere così facile da affrontare tenendo conto della posta in gioco e dei meccanismi endogeni ed esogeni.

È possibile determinare alcune responsabilità?
La responsabilità della gravità della situazione tocca innanzi tutto le coscienze di un nucleo di politici congolesi, opportunisti e traditori, ma investe anche i paesi vicini che appoggiano i guerriglieri, l’Unione africana e tutta la comunità cosiddetta internazionale, che legittima la ribellione.

Essi dovrebbero unirsi per fermare queste guerre.

La missione dei caschi blu è fallita. La MONUC (nome del contingente ONU in RdC, ndr.) dovrebbe proteggere la popolazione civile, ciò secondo la carta dell’Onu (articolo VII) sull’uso della forza. Ma più di 200.000 sfollati sulle colline del Nord Kivu, subito dopo la ripresa delle ostilità, ci dice della debolezza e presenza infruttuosa delle forze ONU.

Che relazione c’è tra il modello di vita e le abitudini dei cittadini di Europa e paesi “ricchi”, con i conflitti in quella zona?
Con il suo orgoglio e l’esaltazione del consumismo l’Europa sta crollando nella disumanità. L’Europa consuma i cellulari, i computer, i materiali tecnologici sul sangue versato per il coltan. Ma i poveri non possono continuare a pagare con il loro sangue il progresso tecnologico e il consumo dei cittadini del Nord. Non si può pretendere una pace solida fino a quando ci saranno queste parti del mondo che soffrono la carestia, vittime delle guerre, oppure private dei diritti fondamentali.

Coloro che sopravvivono in queste drammatiche situazioni cercheranno sempre di venire nei paesi del Nord (Europa, etc). Ciò sta alla base della questione dell’emigrazione dall’Africa e dell’immigrazione in Europa, realtà che fa fastidio e paura all’Occidente, ma che è in stato di invecchiamento e che necessita di forza lavoro.
È un problema di vita o di morte. Ad esempio, nel Nord Kivu dove c’è la guerra, il 90 % della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno.

Vedete come ci sia un paradosso: dalla sovrabbondanza delle ricchezze minerarie alla miseria della vita quotidiana. La situazione è esacerbata con il modo di produzione tentacolare e centrifugo. Tutto viene prodotto fuori dal paese e in cambio occorre reimportare la manifattura.

Quindi l’Europa deve cambiare non soltanto le sue abitudini ma deve iniziare a fare i conti con la sua ipocrisia. I presidenti occidentali vogliono mantenere i regimi autocratici africani compatibili per i loro interessi (Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna, ecc).

Siamo di fronte ad un processo occulto di ri-colonizzazione del continente nero. Ma purtroppo l’informazione è sempre manipolata dai poteri forti. I cittadini hanno sempre una versione falsata o piena di stereotipi sulla realtà africana. Ci vuole più solidarietà per denunciare la violazione dei diritti dovunque.

Il conflitto congolese viene spesso dipinto, dal punto di vista mediatico, con false ragioni etniche (rivendicazione dell’identità tutsi), ma oggi il traffico commerciale di coltan è diventato la ragione maggiore della realtà bellica nel Nord Kivu.

Come i diamanti erano ieri la causa della guerra in Sierra Leone.

Dunque, c’è una correlazione significativa fra il modello di vita del consumatore dei materiali elettronici di cui è fatto il coltan e la conflittualità armata del posto dove è presente in natura e depredato dagli sfruttatori.

A che cosa serve il coltan?
È una risorsa mineraria resistente alla corrosione. Si usa nelle industrie elettroniche, aeronautiche (reattori), ecc. Serve soprattutto alla fabbricazione dei cellulari, computer, giochi elettronici, per costruire i condensatori di ultima generazione; infatti è l’elemento necessario alla formazione delle leghe dei materiali speciali presenti nelle nuove tecnologie.

Lei si è fatto promotore per la diffusione di una accorata lettera del vescovo di Bukavu, Mons. Francois Xavier Maroy Rusengo, al primo ministro Muzito, in cui vengono descritte con chiarezza le basi della situazione drammatica della RdC, le responsabilità e gli eventuali errori da evitare, ce ne può parlare?
La lettera della Sua Ecc. Mons. Maroy è stata un pertinente e chiarissimo riassunto della situazione.  Il presule di Bukavu denuncia un guerra assurda che coinvolge la popolazione (donne e bambini) come armi di guerra. Denuncia inoltre il rischio di una situazione di implosione nelle altre provincie. I precedenti conflitti armati nella zona hanno provocato di più di 5.000.000 di morti. La sua dolorosa denuncia quanta indifferenza dovrà ancora subire?

Come si sta mobilitando la società civile congolese per lavorare da un lato nel fronte interno del paese per arginare l’emergenza ed evitare la catastrofe, e dall’altro sul lato dei contatti con l’opinione pubblica e la società civile internazionale, per diffondere informazione e pressione politica?
All’interno del paese, la società civile attiva molti meccanismi per alzare il morale della popolazione. A parte le riunioni e le analisi strategiche, altre energie vanno per il servizio di accoglienza e di valutazione dei bisogni umanitari.

Localmente, i giovani hanno attivato delle pattuglie notturne per controllare i casi di infiltrazione. Sono state organizzate delle manifestazioni per mobiliare la popolazione, per denunciare l’aggressione e i saccheggi delle risorse minerarie.

La società civile è sempre in rapporto simmetrico con la Chiesa: c’è anche l’impegno delle confessioni religiose, soprattutto cattolica (attraverso la Caritas) per gli aiuti ai bisognosi fino alle comunità periferiche più colpite.

Le donne si sono attivate in modo più numeroso e deciso essendo le prime vittime della guerra. In sinergia con alcune istituzioni internazionali (Amnesty International, Unicef) esse hanno denunciato il persistente e vergognoso reclutamento dei bambini e delle bambine da parte dell’esercito e dei gruppi armati.

Un’importante manifestazione del collettivo delle associazioni femministe per lo sviluppo (CADED) è stata organizzata davanti al Quartiere generale (bureau) della MONUC a Goma il 29 settembre 2008.

Circa 200 donne della città di Buta (Nord di Kisangani) hanno fatto una marcia contro la guerra, denunciando le violenze sessuali sulle donne. Amnesty conta circa 350 casi di stupro al mese.

A Lububambashi, Bukavu, Kindu altre manifestazioni sono state organizzate contro le riprese degli episodi bellici nel Nord Kivu. Si sono espressi inoltre tanti messaggi di sostegno al programma AMANI (programma istituito dalle istituzioni elette democraticamente per la risoluzione dei conflitti, per l’assorbimento dei gruppi “autonomi” di guerriglieri nell’esercito nazionale, e altre forme di stabilizzazione, firmato a Goma il 23 gennaio 2008 e del quale il mancato rispetto ha dato il via alla ripresa degli scontri armati i mesi scorsi, n.d.r.) contro la dinamica bellica del CNDP del generale Laurent Nkunda, verso il quale si chiede alla Corte penale internazionale di valutare se esistano gli estremi per emettere un mandato di arresto, in relazione ai crimini commessi dallo stesso e dai suoi combattenti.

Al livello internazionale sono stati organizzati degli incontri a Roma, presso la Chiesa della Natività ed a Bologna; incontri di riflessione per la pace con le organizzazioni italiane per i diritti umani e gli istituti missionari.

Attraverso internet, inoltre, cerchiamo di fornire notizie e informazioni con tempestività e dovunque, per denunciare le violazioni assurde dei diritti umani e i crimini di guerra che si perpetuano nel Nord–Kivu.

C’è poi la collaborazione per tante manifestazioni fatte altrove in Europa ed altre sono in preparazione.

Teniamo anche sotto osservazione le operazioni per la distribuzione degli aiuti internazionali (Kit cibo, etc.), ma la situazione rimane caotica a livello umanitario. Si verificano delle vere e proprie emergenze igienico-sanitarie nei campi di “concentramento” dove confluiscono centinaia di migliaia di sfollati in fuga dalle zone più rischiose.

di Francesco Maule, Creazzo (VI), 11 gennaio 2009 per “La Voce dei Berici”.

Foto di: Church Mission Society (CMS)

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