Con l’inizio del processo di registrazione dei votanti della settimana scorsa, gli abitanti del campo di Nakuru per “Internally Displaced Persons” (IDP) hanno sottolineato che molti di loro non voteranno alle elezioni del 2012.
Un comportamento identito a molti altri settori della società keniota. Due anni dopo le violenze post-elettorali che hanno sconvolto le radici del paese dell’Africa orientale, nessuno di quei problemi all’origine di quei disordini è stato affrontato e migliaia di persone vivono ancora in campi di fortuna. “Ho paura di andare a votare un’altra volta”, dice il quarantenne Joseph Kimajoroge. “Comunque sia, il governo non si preoccupa neanche di fare la campagna elettorale qui. Si vergognano troppo. Io vengo da Mau Narok (una città a sud-est di Nakuru), prima delle elezioni avevo una casa e un lavoro come conducente di autobus. Adesso non ho niente, non ho neanche i soldi per andarmi a cercare un lavoro in città”.
Fatta eccezione per un gruppo di latrine improvvisate, al campo di Nakuru mancano le forme più elementari di igiene. Manca un ospedale, esiste una scuola fatiscente costruita sotto un vecchio gazebo e le tende, fatte con delle plastiche donate dall’UNHCR, la commissione delle Nazioni Unite per i rifugiati, non sono adatte per ripararsi dalle pesanti piogge che si sono abbattute negli ultimi mesi.
Lea Wajilu, 49 anni, punta il dito contro le pozzanghere che si sono formate all’interno della sua tenda e spiega come, quando piove di notte, lei deve continuare a buttare via l’acqua dal tetto affossato onde evitare che cada sopra la sua abitazione già piena di fango. “Se avessi i materiali costruirei una casa al posto di questa tenda”, dice: “comunque sia non ho dove andare. Se il governo si preoccupasse di noi forse voterei ma in questo modo? Tu voteresti?”
Wajilu ha perso due dei suoi nove bambini a causa delle violenze e, come tante altre persone, è stata cacciata via dai suoi vicini dall’unico posto che abbia mai riconosciuto come la sua casa. “Il governo ci aveva dato dei soldi (10000ksh circa €100) dopo gli scontri e li abbiamo messi insieme per comprare questo terreno. Non ho un documento per questa porzione e questo provoca tante discussioni”, aggiunge.
Gli abitanti del campo di Nakuru non hanno un gruppo interno per aiutarsi e neanche un gruppo di rappresentanti per comunicare col governo. “Ognuno sta per conto suo qui”, dice Stephen Karanu Kimani che, a 45 anni, è uno dei pochi fortunati all’interno del campo ad avere una sorella in Germania che possa pagare le tasse scolastiche per le sue due bambine. “Non prendiamo decisioni, aspettiamo che i donatori decidano di aiutarci”.
L’atteggiamento di Kimani è diffuso per tutto il campo: le persone sembrano non aver voglia o non aver la capacità di autorganizzarsi in modo da affrontare le difficoltà come un unico gruppo unito.
Lo sviluppo così urgente da parte del governo degli sfollati di Nakuru non sembra essere all’orizzonte. Queste persone che sono state alzate in fila per ore per votare con un carico di speranze due anni fa, sembrano oggi indecise se ne valga veramente la pena avere una voce.