di Vito Teti
Sprofondati sui nostri divani, li osserviamo mentre fuggono scacciati da Rosarno.
Noi vagamente impegnati nei propositi buoni per smaltire gli stravizi alimentari delle feste, le nostre pattumiere appena svuotate da chili di pane, panettoni e cibi che li avrebbero nutriti per un mese almeno, lì nei baracconi dismessi, dove non cercavano riparo nemmeno gli animali.
Sfilano le immagini nelle nostre case comode – magari incompiute, frutto di sacrifici – di quei lager più vergognosi forse di quelli nazisti.
Noi che sprechiamo acqua come nessuno in Europa, qui nella terra dei profumi – agrumi spremuti a sangue? – li vediamo improvvisare un muro di vecchi copertoni d’automobile e qualche calderone d’acqua calda, pur di riuscire a lavare via fatiche inimmaginabili.
Noi che siamo stati emigrati, che siamo fuggiti, che abbiamo conosciuto il razzismo degli altri, ci chiediamo ora cosa abbiamo fatto per impedire questo strazio.
Noi, eredi degli emigrati che sono stati chiamati gipsy, zingari, «razza maledetta», «uccisori di Cristo», noi abitatori di una terra, in passato, chiamata “Africa” o “India”, noi nipoti e figli di uomini vissuti nelle baracche e morti nelle miniere, pensiamo mai ai sentimenti di tutta questa umanità dolente?
Siamo eredi di mille popolazioni “straniere”, abitiamo una terra crogiuolo di popoli, ma non li abbiamo trattati come uomini.
Dell’ospitalità facciamo vanto e retorica, proclamiamo l’odio per ogni forma di violenza, noi che comprendiamo la paura della gente di Rosarno e la sua irritazione per la “guerriglia” degli immigrati, noi che non pensiamo che siamo diventati improvvisamente razzisti, noi che abbiamo contribuito con la nostra ipocrisia, i nostri silenzi, le nostre complicità a trasformare queste persone in fiere arrabbiate, ma forse le bestie inferocite siamo proprio noi, pronti a braccare, o ad applaudire chi stana le prede.
Noi figli dei contadini che hanno occupato le terre, noi che abbiamo sfilato nella piana contro i caporali e abbiamo pianto Giuseppe Valerioti, ucciso dalla ndrangheta, abbiamo perso la memoria, smarrito il senso della nostra storia.
Noi che abbiamo cercato pane e lavoro in tutto il mondo, li guardiamo fuggire su un pullman, scortati dalla polizia per evitare il linciaggio.
Noi “fieri” e “forti calabresi”, noi che gliela abbiamo “fatta pagare a questi sporchi negri”, noi che “abbiamo liberato il territorio dalla feccia dell’umanità”, quando e perché abbiamo accettato di perdere la libertà, siamo caduti sotto il governo della ndrangheta, che manipola le nostre vite, le nostre case, i nostri legami, le nostre passioni?
Abbiamo provato paura e terrore vedendo le macchine incendiate, i negozi assediati, ma dovremmo pensare anche alla rabbia di costoro, che hanno paura, fame, sono disperati e feriti.
Fermiamoci a pensare a Mimmo Lucano, sindaco di Riace, che chiede scusa agli immigrati e a come possiamo confortarlo, come sapremo riparare a una vergogna, conciliarci con i luoghi.
Sostiamo pensosi, noi che a Riace ci siamo commossi nel vedere il sindaco e gli abitanti tutti attendere nel buio della notte le ombre dei palestinesi, cacciati da tutte le terre, scarti degli scarti.
Continuiamo pure ad agitarci, a lamentarci, ad esasperarci, ma almeno questi nuovi schiavi forse possono restituirci il senso della nostra schiavitù, questi derelitti ci fanno avvertire il peso della nostra indifferenza.
Noi ossessionati dall’immagine di noi stessi, suscettibili retori della calabresità, sempre pronti a considerarci i primi, noi che “ci pare brutto”, noi che i leghisti ce l’hanno con i meridionali, cosa risponderemo, nel nostro cuore, a quelle persone che fuggono dicendo che la Calabria è la regione più razzista d’Europa, il luogo da cui scappare e dove non tornare?
Noi che abbiamo preferito chiudere gli occhi, tanto ci sentivamo a posto con i nostri articoli, le nostre denunce, la nostra carità comoda, la nostra ospitalità a buon mercato, come contrasteremo ora i leghismi e i localismi? Con quali occhi guarderemo le donne che si occupano dei nostri vecchi, gli immigrati che riempiono i nostri vuoti, gli africani che popolano le campagne che abbiamo abbandonato?
Noi che ci dedichiamo allo struscio, che pregustiamo già il pranzo della domenica, nell’attesa della partitissima Juve Milan, incrociando tra uno zapping e l’altro quei volti spenti, macerie di esseri umani spediti nei centri di accoglienza, avremo il coraggio di pensare che questi paesi ora sono ancora più vuoti, più soli, più poveri, senza milleduecento fratelli, vittime forse delle nostre stesse ombre?
Noi che non abbiamo dubbi e noi che non abbiamo certezze, troviamo il coraggio di fissare questa pagina dolorosa della nostra terra che evoca, e non sembri un’esagerazione, l’eccidio dei Valdesi voluto dagli oppressori del passato.
Noi che ci lamentiamo e non ci ribelliamo, che conosciamo la retorica e le perversioni dell’onore e magari manteniamo ancora il senso della dignità e proviamo vergogna, troviamolo il coraggio di ringraziare questi emigrati che sono fuggiti muti e increspati come le nubi di questi giorni che hanno cancellato le nuvole bionde e sorridenti della Piana.
Chiediamoci noi – tanto e tale è il disagio – che idea abbiamo di questo noi, chi siamo diventati, noi. E come sarei tentato di chiamarmi fuori da questo no
Pubblicato su “Il Quotidiano della Calabria” lunedì 11 gennaio, 2010, p. 1 e p. 8