Caro direttore
«Salviamoli tutti ma non possiamo accoglierli tutti» scrive Matteo Renzi: cioè opporsi agli sbarchi serve a poco (ed è contro i nostri valori), quello che occorre è la redistribuzione europea.
È l’attuale battaglia del governo.
Resettlement e relocation non hanno funzionato, altri porti per ora non si aprono.
Emma Bonino rilancia la proposta di Sant’Egidio di attivare la direttiva Ue 55 del 2001, creata per gli afflussi di massa delle guerre dei Balcani (permette la deroga a Dublino III e promuove l’equilibrio degli sforzi). Urge sul tema una riflessione pubblica: come potremmo avvantaggiarcene a Bruxelles?
In Europa vige una regola: tutto va tentato, e tutto assieme. Non funzionano vittimismo o ricatto, ne prodigi unilateralisti: esiste solo il negoziato, magari duro. Rifiutarlo è la peggior politica possibile.
L’Italia una politica ce l’ha.
La novità degli esecutivi Renzi e Gentiloni sulle politiche migratorie è l’aver spostato l’asse dalla sola reazione umanitaria a quella geostrategica.
I flussi sono un dramma per chi migra rischiando la vita; sono una questione sociale e d’integrazione per i Paesi europei. Ma sono una questione di sopravvivenza per Stati di origine e transito: trafficanti/mafie/jihadisti li trapassano senza rispetto attaccandoli e mettendoli a rischio di fallimento.
Da qui una «rotazione» politica: solo una connessione di interessi tra Europa e Africa può risolvere.
Nasce così la nuova politica africana dell’Italia e dell’Europa, che resterà per qualsivoglia futuro governo: è in quelle aree che si trattengono i flussi lottando per la comune sicurezza. È una piattaforma di lunga durata su tre assi: partenariato di cosviluppo con l’Africa; finanziamento privato in aggiunta al pubblico; sostegno alla statualità di Stati fragili.
L’Italia si è battuta perché il Trust Fund per l’Africa «La Valletta» fosse rifinanziato e permanente (è a 2,8 miliardi, quasi i 3 della Turchia ma con più rapido esborso); ha inventato l’External Investment Plan (in gergo il Migration Compact) portandolo ad approvazione; negozia con i Paesi di origine e transito per gestire i flussi, rimpatri compresi.
Abbiamo aumentato finanziamenti, investimenti, imprese, nuove ambasciate e in futuro una presenza più operativa.
Abbiamo reso consapevole l’Europa che le frontiere si sono spostate a sud, che la nostra sicurezza è la loro.
La Germania è stata la prima a comprendere l’innovazione italiana, sposandola con il Piano Marshall. Posso testimoniare che la battaglia a Bruxelles è stata dura: forti resistenze al Trust Fund; scetticismo iniziale sull’Eip e poi lotta per controllarlo; contrasto sull’utilizzo e sulla natura dei fondi di cooperazione.
Anche coi Paesi africani il negoziato è arduo: tutti hanno le loro giustificate posizioni.
Ma una cosa è certa: senza accordi non si fa nulla e l’Africa va presa sul serio.
Fonte: esteri.it