Il 2 Marzo si è svolta a Berlino la cerimonia di assegnazione del premio “L’italiano dell’anno”, riconoscimento attraverso il quale il Com.It.Es si propone di premiare “due personalità, un uomo e una donna, che si sono distinte nella comunità italiana”. I vincitori di quest’anno sono Sestilia Bressan, volontaria della Missione Cattolica Italiana a Berlino, e Mauro Mondello, giornalista freelance, corrispondente di guerra, documentarista, reporter che vanta collaborazioni con svariate testate giornalistiche (Repubblica, Panorama, Il Reportage, die Zeit, Le Monde, solo per citarne alcuni).
Incontro Mauro in un bar, scelto da lui appositamente perché «di solito non tengono la musica a quest’ora, così riesci a sentirmi nonostante il mio tono di voce molto basso». Difficile immaginare che questo ragazzo classe 1982 nella sua vita, oltre ad aver vissuto a Messina, Padova, Australia, Milano, Sudamerica e Berlino, sia anche un ex giocatore di rugby.
L’impressione è quella di trovarsi di fronte a un uomo che di vite ne ha vissute ben più di una, che si porta dietro un bagaglio di esperienze e conoscenze incredibilmente pesante per la sua età.
Innanzitutto complimenti! Ti aspettavi questo riconoscimento?
No, non me lo aspettavo, ma non lo dico con modestia. Sono abbastanza cosciente di aver fatto un buon lavoro nell’ultimo anno, soprattutto per quanto riguarda il tema dell’immigrazione che ho voluto affrontare in un certo modo. Sono piuttosto sorpreso che siano arrivati a me, non ho molte conoscenze a Berlino e immagino che ci siano moltissimi altri italiani qui che avrebbero meritato più di me questo riconoscimento, ma per il solo fatto di aver minor visibilità mediatica rimangono nell’ombra.
Cosa ti ha spinto a scegliere la professione del giornalista?
Faccio il giornalista praticamente da sempre; ho fondato il mio primo giornale alle superiori con i miei compagni di scuola e una volta conclusosi il periodo scolastico, dopo la laurea in sociologia, ho insistito su questa via. Mi ha spinto la voglia di trasmettere delle informazioni “uniche” in maniera dettagliata e precisa, ovvero raccontare fatti, situazioni, persone e cose che avrebbero la necessità di comparire su media ma che di fatto non compaiono. Per questo dico spesso che in qualche modo interpreto la professione del giornalista come si faceva una volta, a metà fra il servizio e direi quasi la missione; credo cioè che il mio ruolo, il mio dovere di giornalista sia quello di raccontare le informazioni che gli altri non ti danno.
Sei principalmente un reporter di guerra e ti sei trovato anche in situazioni estreme. Quale è stata la situazione più difficile nella quale ti sei trovato?
Ce ne sono state diverse, ma se ne devo scegliere una mi trovo immediatamente a ripensare alla Somalia, nell’aprile del 2015, quando ho intervistato il gruppo islamista Al- Shabaab tre giorni prima che compissero l’attentato all’Università keniota di Garissa. Mi capita spesso di sottovalutare le situazioni in cui mi trovo, ma questa è stata sicuramente quella più al limite dal punto di vista emotivo, volevo solo tornarmene a casa.
Hai mai pensato di smettere?
In quella occasione sicuramente, ma non era la prima volta. Pensavo di smettere in Libia, pensavo di smettere in Siria, ma è come ci si ubriaca: sul momento si giura che non si berrà mai più, ma poi puntualmente ci si ricasca. Devo dire che in Libia, in Siria, in Ucraina, in Egitto, sono stati pensieri del momento, in Somalia invece questa sensazione, questa paura, è rimasta per diverso tempo, tant’è che dopo il mio ritorno ci ho messo altri cinque mesi per ripartire di nuovo, quando di solito ne ne faccio passare mai più di due.
Come vivi questi periodi di pausa?
Sono innanzitutto periodi di grande lavoro. Dal posto mi occupo soprattutto radio e cronaca, o in generale tutto ciò che richiede una produzione più rapida e immediata, poi quando torno qui scrivo i pezzi più lunghi, i reportage di approfondimento, che richiedono più tempo e una maggiore elaborazione del materiale, produco insomma tutta l’informazione che non ha una scadenza.
E dal punto di vista emotivo?
Questa è sicuramente la parte più complessa, c’è un cambio radicale. Si arriva da luoghi particolari, dove si vive in un certo modo e la vita ha un certo valore, e quando si torna si ha la sensazione che qui sia tutto normale, tranquillo, e che la maggior parte delle persone neanche si renda bene conto di cosa sta succedendo là fuori. E questo rientrare nella vita e nei meccanismi della vita contemporanea europea è abbastanza complesso. Parlo anche delle cose semplici, come andare in un bar, prendere dei mezzi pubblici, è una cosa che anche già all’arrivo in aeroporto ti fa pensare, ti fa sempre riflettere. Ci vuole sempre un po’ di tempo per riabituarsi, infatti lo spettro temporale dei due mesi è ragionato, perché è il tempo che ci vuole per riprendersi dallo stress fisico e emotivo che non è mai indifferente.
Il tuo ultimo documentario, Lampedusa in Berlin, ha raccolto le testimonianze dei rifugiati richiedenti asilo politico che fra il 2012 e il 2014 hanno occupato Oranienplatz. C’è qualche speranza per queste persone di trovare in Europa una vita migliore?
Tecnicamente c’è, sicuramente parliamo di persone che provengono da contesti politici, economici e sociale che rispetto ai nostri sono meno sviluppati, quindi sicuramente c’è una possibilità. Il problema diventa poi politico, perché i mezzi ci sarebbero, ma poi la politica spinta dall’opinione pubblica, e viceversa, non permettono di portare a termine il percorso. io credo sia ingiusto classificare le persone in cittadini di serie A o di serie B in base alla loro provenienza geografica, non solo chi sta scappando da una guerra, cosa di cui spesso sembriamo dimenticarci, ma anche chi cambia paese con la volontà di migliorare la propria vita o la propria condizione economica. In fin dei conti la maggior parte degli italiani a Berlino fa la stessa cosa, me compreso. Io l’ho potuto fare non perché me lo sono guadagnato per diritto, ma perché ho un passaporto italiano. Ill nostro diritto di europei di muoverci liberamente da un paese all’altro senza dover richiedere un visto non ce lo siamo guadagnati, ci è solo capitato per caso.
Appena qualche settimana fa Gianfranco Rosi ha vinto la Berlinale con un documentario sul Lampedusa. Credi che la sempre maggior attenzione al tema dei rifugiati sia indice di un risveglio delle coscienze o si tratta solamente di un trend topic?
Purtroppo io credo che non ci sia alcun risveglio delle coscienze. Io mi occupo di immigrazione dal 2010. Gli sbarchi a Lampedusa ci sono, almeno con questa intensità, almeno dal 2011, dallo scoppio della guerra in Libia. Noi però ce ne siamo resi conto di colpo nell’ultimo anno, e in maniera dirompente negli ultimi sei mesi. Si tratta perlopiù di “folate” che si intensificano quando compare la parte cinematografica della migrazione, ovvero la foto di un bambino morto sulla spiaggia o di un padre che accarezza il figlio. È evidente che si tratta di un trend topic, perché si tratta di una situazione che ormai ha raggiunto il quinto anno e tuttavia non si ha mai la sensazione che si tratti un interesse costante, sono sempre delle folate che poi scompaiono e ripartono nel momento in cui succede qualcosa di molto specifico.
[L’intervista è finita, rimaniamo ancora qualche minuto a parlare di questa città, di italiani, di chi va e chi resta, di nord e sud. Quando ci salutiamo ho la sensazione di aver intervistato un gigante, sulle cui spalle, se ci togliamo il paraocchi, noi nani possiamo arrivare a guardare un po’ più in là del nostro naso.]
Fonte: italiankingdom.com
Mondello sarebbe anche bravo ma spara qualche volta senza conoscere da vicino il contesto. Suo ultimo articolo su Varsavia e sulle povere donne che abortiscono sono delle favole.