Nelson Mandela: la battaglia per la memoria
Metti una sera a cena venisse il bel sorriso ieratico di un elegante vecchio nero dai capelli bianchi. Quasi nessuno lo temerebbe o sarebbe razzista. È successo con Nelson Mandela nella sua età matura, dopo che per tre quarti della sua vita i benpensanti di tutto il mondo si erano uniti nell’odio contro il terrorista e il militante rivoluzionario disconoscendone le ragioni.
I quotidiani che oggi lo celebrano hanno difeso per decenni l’apartheid. I politici che lo onorano avevano giustificato quel sistema concentrazionario, che aveva assassinato decine di migliaia di militanti, privato milioni di una vita degna e levato a Madiba molti dei suoi anni migliori, come una triste necessità causata da due fenomeni nei quali il Sud Africa razzista faceva da anello di congiunzione tra XX e XXI secolo: la guerra fredda e le migrazioni.
L’apartheid è stato a lungo giustificato come una triste necessità della guerra fredda, come difesa dai neri incapaci di autogoverno rispetto allo splendore degli schiavisti, l’unico argine possibile dai migranti dell’Africa immensa disposti a vivere nelle baraccopoli come Soweto e a rovinarsi la salute in miniere come Marikana. I bianchi erano costretti a difendersi o sarebbero stati spazzati via da quelle masse senza volto e non era possibile quell’utopia ingenua di «un uomo, un voto» che altrove era alla base della legittimazione dell’Occidente. Considerazioni simili furono spese e si spendono per Israele rispetto ad un intorno mediorientale numericamente soverchiante e irrimediabilmente ostile e per il Cile di Pinochet, con l’Henry Kissinger del “non possiamo permettere che [Salvador] Allende vada al governo per l’irresponsabilità del suo popolo”. Quegli africani bianchi, perfino i più ottusi e spietati, restavano “i nostri” e Mandela era il nemico, il sanguinario terrorista.
Ma oltre a questa elementare esegesi c’è molto di più di ciò ed è fondamentale ricordarlo e capirlo. La melassa di oggi, con quei coccodrilli già pronti da mesi, è la negazione stessa di Nelson Mandela e della lotta di una vita. La costruzione che ci sottopongono, quella di un “happy ending” per l’ignominia dell’apartheid, senza vincitori né vinti, è semplicemente una narrazione falsa, che ricalca quella della fine della storia alla Fukuyama, scopo della quale è mantenere sul trono l’uomo bianco nella sua infinita saggezza. Il bianco era stato costretto all’apartheid dall’irresponsabilità del nero ma, con il ravvedimento di questo, il bianco era pronto a tendere la mano.
Se l’apartheid era stata una triste necessità così, con la fine dell’incubo sovietico, si era potuto permettere di guardare avanti. Nella costruzione retorica c’è il ravvedimento operoso dell’uomo bianco che finalmente può essere generoso e concedere la pace all’uomo nero sconfitto che, dopo una vita di sbagli per i quali è stato giustamente punito, è finalmente diventato saggio, come testimoniano i suoi capelli. È l’uomo bianco che concede a Mandela di uscire dal carcere e che vince comunque. Vinceva da suprematista, vince oggi che concede generosamente un regime democratico disegnato dai Chicago boys e protetto dal FMI, nel quale può permettere di farsi governare dal nemico storico lasciato uscire dal carcere. È la ricostruzione dominante ma non sta in piedi.
L’apartheid non finisce perché finisce la guerra fredda o per un atto lungimirante dei razzisti. L’apartheid finisce perché è sconfitto militarmente in guerre che non s’insegnano in nessuna scuola occidentale. L’apartheid finisce perché nel suo delirio espansionista è sconfitto dalle lotte dei popoli dell’Africa australe e deve via via ritirarsi prima dalla Rhodesia, quindi dalla Namibia, infine dall’Angola meridionale. Farete fatica a trovare sui giornali le dinamiche storico-politiche dell’Africa australe tra le cause della fine dell’apartheid. Ma è lì, a Cuito Cuanavale, la più grande battaglia campale in territorio africano dalla fine della seconda guerra mondiale, che si combatte tra la fine dell’87 e l’inizio dell’88 lo scontro militare nel quale è sconfitta l’apartheid. È a Cuito Cuanavale che si aprono le porte del carcere dove è sepolto Mandela da oltre un quarto di secolo.
Quando Nelson Mandela afferma -e lo ha fatto inequivocabilmente in molteplici occasioni- che senza Rivoluzione cubana, senza la volontà politica di Fidel Castro, senza il sangue di migliaia di combattenti cubani, oltre che di angolani dell’MPLA di Agostinho Neto, delle milizie armate del suo African National Congress e dei namibiani della Swapo, l’apartheid non sarebbe finita non sta facendo una concessione protocollare ad un vecchio amico e ad un processo storico residuale. Quel giorno, sui campi di battaglia del Sud dell’Angola, i bianchi sudafricani non sono diventati buoni: “sono stati sconfitti”. Quel giorno non si combatteva l’ennesima battaglia per interposta persona al crepuscolo della guerra fredda ma fu, sotto gli occhi di chi poteva guardarlo, il più grande esempio di internazionalismo della Storia.
Solo poi venne tutto il resto, la straordinaria capacità di Nelson Mandela di smantellare l’apartheid, di costruire un processo di pace e un nuovo paese. Ma quel processo è comprensibile davvero solo ricordando quel che in mille coccodrilli viene oggi negato: che l’apartheid fu sconfitta e che la pace di oggi fu costruita col sangue di quei combattenti. Mandela è stato un combattente quando è stato necessario combattere per poter diventare un uomo di pace da una posizione di forza. Senza combattere, e senza il decisivo aiuto militare cubano, l’apartheid sarebbe sopravvissuta per molti anni ancora, avrebbe eretto altri muri e sarebbe stata giustificata e difesa ad oltranza ancora da tanti tra quelli che oggi celebrano Madiba.
Ieri, nel suo alto discorso, Barack Obama non infinge nel riconoscere che senza Nelson Mandela lui non sarebbe mai diventato presidente degli Stati Uniti. Che differenza di statura rispetto al pensiero unico per il quale ogni progresso sociale, scientifico, culturale in questo pianeta sarebbe figlio dell’Occidente! Obama invece ammette che la legittimazione dell’inquilino della Casa Bianca sia venuta da una spoglia cella di un carcere sudafricano. Pretendo troppo nel chiederlo a Barack Obama e sarò io, da uomo libero che nulla ha da guadagnare dalle proprie idee, a completare il sillogismo. Se Barack Obama ammette di dovere la sua presidenza a Nelson Mandela e Mandela ha sempre riconosciuto a Fidel Castro e all’aiuto internazionalista cubano il passaggio fondamentale che ha permesso la sconfitta dell’apartheid (che gli USA difendevano), allora se oggi Obama è alla Casa Bianca lo deve anche alla Rivoluzione cubana.
Come sempre accade in questi casi, ma per un grandissimo come Mandela in particolare, oggi sui giornali come nelle bacheche Facebook di ognuno di noi, si combatte una battaglia per la memoria. Da una parte, il mainstream, che si esalta nel solare sorriso del vecchio saggio. Dall’altra si pubblica il pugno chiuso del militante rivoluzionario. Ma il vecchio saggio è rimasto fino alla fine dei suoi giorni un militante rivoluzionario. Perché essere rivoluzionari, oggi più che mai, è essere saggi.
Fonte: gennarocarotenuto.it
Nelson Mandela ha avuto un obiettivo in tutta la propria vita da leader: l’unità degli africani. Ne è convinto Desmond Tutu, l’arcivescovo che con l’ex presidente sudafricano si battè contro l’apartheid. “Negli ultimi 24 anni – ha detto Tutu – Madiba ha pensato a come farci vivere insieme e credere l’uno nell’altro. E’ stato un unificatore fin dal momento in cui è uscito dalla prigione”. “Un colosso, un esempio di umiltà, uguaglianza, giustizia, pace e speranza per milioni” di uomini e donne. Così l’Africa National Congress (Anc), il partito di Nelson Mandela, lo ricorda oggi, mentre Frederik De Klerk, ultimo presidente sudafricano dell’epoca dell’apartheid, spiega: “Grazie a Mandela la riconciliazione in Sudafrica è stata possibile”.