Due uomini e una donna sono stati arrestati in Svezia perché coinvolti in una vicenda di ricatto per omicidio ai danni di un rifugiato eritreo che si ritiene fosse in ostaggio in Egitto. E’ la prima volta al mondo da quando si è appreso delle prese collettive di ostaggi eritrei nel deserto del Sinai qualche anno fa. E l’inizio di un’inchiesta che potrebbe risalire la gerarchia militare eritrea. Diciamo che il ragazzo si chiamava Yonas. La sua vera identità non dev’essere rivelata, visto che la sua famiglia ignora ciò che gli è successo. Aveva diciannove anni e come migliaia di giovani eritrei, ogni anno da dieci anni, era scappato dal suo paese a piedi all’inizio del 2012, sperando di sfuggire alla dittatura del presidente Issayas Afeworki.
Rapito appena arrivato in Sudan, era stato consegnato insieme ad altri nove ostaggi a « Abou Sultan », il capo di una delle famiglie mafiose rampanti nel deserto del Sinai, in Egitto. Detenuto per quasi un anno, è morto alla fine di gennaio dopo due giorni di crocifissione – l’ultima punizione inflitta ai loro prigionieri dai gangsters beduini che dominano nella regione. Non è mai riuscito a raccogliere i 33 mila dollari voluti dai suoi rapitori per la sua liberazione.
« L’hanno staccato ed è morto. Me l’ha detto due settimane fa un rifugiato che è stato catturato con lui. Lui era l’unico sopravvissuto del gruppo di dieci », racconta a RFI la giornalista eritrea Meron Estefanos, che era in contatto telefonico con lui, dalla Svezia dove vive.
Tre arresti in Svezia
Dopo cinque anni di contatto quotidiano con i fugitivi del suo paese natale, Meron Estefanos aveva finito col credere che « il resto del mondo se ne frega degli eritrei e di ciò che sopportano ». Questa volta, dopo il martirio di Yonas, è diverso. Due uomini e una donna sono stati arrestati il 20 febbraio a Solna, un quartiere periferico di Stoccolma. Erano intermediari ai quali Meron, che Yonas aveva fatto credere essere sua cugina, doveva rimettere i soldi della rata. Secondo il procuratore capo Krister Petersson, sono accusati « d’estorsione » e di « cospirazione finalizzata all’omicidio ».
L’inchiesta della polizia svedese è durata diverse settimane, basandosi sulla discrezione di Meron Estefanos. « I complici dei rapitori mi inviavano degli SMS diverse volte al giorno, racconta a RFI. Si facevano sempre più minacciosi. Ho dovuto insistere molto con loro, a cominciare dal 24 gennaio, non ho avuto più contatti con Yonas. Sapevo che la polizia ascoltava, ma gli era successa qualcosa di terribile. » Esausto dagli abusi, aveva fatto credere che sua « cugina » aveva raccolto la rata, per prendere tempo.
Una rete sofisticata
Il procuratore ha detto che numerosi casi simili sono stati segnalati in Svezia in questi ultimi anni. Pertanto, nell’ambito della diaspora, strettamente controllata dalle potenti ambasciate d’Eritrea e dalle loro reti d’informatori, è raro che le famiglie si lamentino. Arresti, espulsioni, arruolamenti forzati nell’esercito, minacce: le rappresaglie contro i genitori rimasti al paese sono sistematiche.
Per di più le complicità delle alte gerarchie dell’esercito eritreo in questo traffico sono probabili. Nel suo ultimo rapporto, nel luglio 2012, il Monitoring Group dell’ONU sulla Somalia ha finanche designato il generale Tekle Kiflai « Manjus », comandante della polizia frontaliera, come uno dei beneficiari di questo business lucroso. L’agenzia di stampa svedese TT cita anche il caso di sette famiglie residenti in Svezia che hanno dovuto pagare 7.000 dollari a « un poliziotto alto in grado dell’esercito eritreo » l’anno scorso. Il militare minacciava di vendere i suoi ostaggi a dei trafficanti in Sudan se le rate non fossero state pagate entro le 24 ore.
La storia di Yonas, infatti, non è l’unica. Tra i 1.000 e i 3.000 eritrei che riescono a passare le frontiere clandestinamente ogni mese, secondo l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR), molti sono quelli che vengono catturati dai soldati sudanesi prima di poter raggiungere il campo di Shegerab, vicino Kassala. Gli evasi vengono venduti alle bande criminali della comunità Rachaïda, che, a loro volta, li rivendono ai loro « cugini » beduini del Sinai. La consegna degli ostaggi è assicurata fino in Egitto in camion che trasporano ogni tipo di contrabbando, ovviamente anche armi con destinazione la striscia di Gaza.
Camere di tortura
Una volta imprigionati nelle ville del Sinaï, gli ostaggi sono torturati mentre chiamano le loro famiglie e li supplicano di raccogliere i soldi richiesti. « Ogni gang ha il suo metodo, spiega Meron Estefanos. Fanno sciogliere della plastica fusa sulla loro schiena, poi li si obbliga a restare in piedi contro un muro affinché le loro piaghe s’infettino. Oppure li si tortura con l’elettroshock, li si stupra o li si costringe a stuprarsi tra loro. » Secondo le testimonianze da lei raccolte, le ville dove sono imprigionati gli eritrei sono state costruite col solo scopo di essere usate come campi di tortura. Nelle celle sono murati anche degli anelli per appenderci le catene e dei cerchi per appendere i detenuti.
Ogni clan ha la sua rete di « esattori » dei riscatti. Il denaro viene versato in contanti, o via Western Union. I numeri di telefono degli intermediari sono svizzeri, britannici, israeliani, egiziani, o provengono dalla striscia di Gaza e finanche dall’Eritrea. Bisogna consegnare una sacca piena di soldi, in pieno giorno, ad Asmara, nel cuore della capitale di un regime che controlla tutti gli aspetti della vita dei cittadini che non sono ancora fuggiti.
Fontr: rfi.fr/afrique